Il personaggio di oggi è il tunnel tra La Maddalena e Palau. L’idea di un collegamento fisso tra l’arcipelago e la terraferma, ormai da decenni, ciclicamente prende vigore e si smorza. È un tema con molte facce, tocca l’economia, il diritto alla mobilità, l’identità, il paesaggio, l’ambiente. Recentemente è tornato a galla con la proposta di un gruppo imprenditoriale che vorrebbe realizzare un tunnel tra la costa di Padule e la zona a est della Sciumara. È un tema caldo, più facile da affrontare col piglio del partigiano che con la flemma del burocrate. Il fatto che circolino pochi numeri, pochi calcoli, poche planimetrie, favorisce ulteriormente lo scontro e penalizza la possibilità di un ragionamento condiviso. Io non ho le idee perfettamente chiare sul tema, lo confesso. Ma se dovessi decidere di pancia, in questo momento, direi “no”.
A La Maddalena, come tutti sapete, si arriva in traghetto; si è sempre arrivati in traghetto, anche quando i traghetti erano barche di legno su cui stavano poche persone e qualche sacco di cibo o semenze.
La traversata è una specie di rito. Chi l’ha fatta molte volte, da turista o da indigeno, ne conserva un’immagine interiore che col tempo non muta. Nel profondo, per me, il rientro all’isola avviene al tramonto, dopo un viaggio stancante e pieno di rumore. Fuori il mare è calmo. Parcheggio la macchina nel garage del traghetto e inizio a salire verso il ponte più alto. Il cielo verso Spargi è rossiccio, su Caprera è blu. L’unico vento che si sente è dovuto al movimento. Sta arrivando l’estate e l’aria a tratti è tiepida. C’è un silenzio che si vede. Il mare, che uscendo da Palau si era aperto fino a toccare le isole più lontane e la Corsica, si fa di nuovo stretto mentre il paese si avvicina. Ormai si distingue la Chiesa, il Comune, il Mercato, i ristoranti del Lungomare. Il traghetto inizia a virare per l’accostata e molti hanno già raggiunto la propria automobile nel garage. Io invece sono lì, che continuo a guardare e me la prendo comoda, tanto so che la manovra si porta via un paio di minuti e mi resta il tempo per scendere le scale e infilarmi in macchina, prima di fare quell’ultimo pezzo di corteo e toccare terra, dopo di che ci si disperde ognuno nel suo vicolo, nella sua salita, nel suo pezzo di periferia silenziosa. È questa la mia idea di “rientro all’isola”. Per carità, ci sono delle varianti. Ognuno ha le sue e io stesso, a seconda del momento, penso alla stessa scena ma verso le otto del mattino (nave arrivata a Olbia alle sei, pullman parte alle sei e mezza, a Palau alle otto meno dieci, traghetto delle otto), o a un pomeriggio col maestrale incazzato, o a notte fonda. Ognuno ha la sua immagine. Ognuno è, in qualche modo, quell’immagine. E non posso non pensare che, se un domani dovessimo costruire un ponte o un tunnel, tutte quelle immagini inizieranno a sbiadire. Non è una cosa da poco. Io capisco il bisogno di velocità, e non ho difficoltà ad ammettere che nessun servizio di traghetti potrà mai dare la stessa continuità territoriale di una striscia di asfalto. Per contro, però, nessuna striscia di asfalto potrebbe tenere in vita quel rito del rientro, né quello speculare della partenza, di ogni partenza.
Possono sembrare discorsi inutili, romanticherie destinate a sbriciolarsi sotto i colpi pragmatici di un certo progresso. Ma mi chiedo, chi l’ha detto che qualche minuto recuperato tra La Maddalena e Palau vale più di quelle immagini? Chi ha misurato questa differenza? Con quale strumento?
Non sono domande a casaccio. Mi chiedo davvero fino a che punto si possa scegliere tra quantità e qualità, tra velocità e integrità. Tra strisce d’asfalto e scie di schiuma. Mi chiedo se non sia già sufficiente avere un servizio di traghetti più moderno e razionale (il più efficiente ed economico tra tutti quelli delle isole minori italiane) e se, per puntare al futuro, non sia invece più saggio e conveniente capire cosa si è stati fino ad oggi, e cercare di esserlo fino in fondo, in maniera da proporsi, anche sul mercato turistico, con qualcosa di autentico e unico anziché con qualcosa di inseguito.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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