Napoleone Bonaparte, dal suo scranno di Imperatore di mezza Europa, gli capitava di pensare, talvolta, a quella sua prima battaglia militare. La sua fastosa carriera, quella del più grande stratega di tutti i tempi, infatti, era cominciata con quella strana battaglia navale. Gli era parso facile, dal principio, prendere possesso dell’arcipelago de La Maddalena. Erano quattro scogli battuti dai venti, abitati da pastori e agricoltori. Da lì, avrebbero facilmente invaso la Gallura e il Logudoro, e marciato alla volta di Cagliari, andando incontro all’altro esercito francese che, nel frattempo, certamente, avrebbe preso possesso della città affacciata nel Golfo degli Angeli. Tutto seguiva il copione prestabilito. Lui era addetto all’artiglieria e, con facilità, già il 22 di febbraio, aveva preso possesso dell’Isola di Santo Stefano, dalla quale aveva fatto vomitare un inferno di fuoco contro la cittadina isolana e contro le navi nella rada del porto. I maddalenini non si erano arresi subito, si erano difesi strenuamente, e il bombardamento era la giusta punizione per la loro tenacia. La missione era compiuta. Un gioco da ragazzi, e non poteva essere altrimenti. Nuovi venti spiravano per l’Europa, provenienti dalla Francia rivoluzionaria. Venti di libertà e di guerra. Il piccolo Regno Sardo, guidato dai piemontesi, sarebbe capitolato per primo. E infatti il Piemonte già aveva abbandonato l’isola del regno al suo destino. Solo che, all’orizzonte, nella bruma marina di quel fresco inverno, qualcosa pareva non andare come ci si aspettava. C’era stato qualche marinaio maddalenino piuttosto ardimentoso che, con una lancia, aveva sfidato le feluche francesi, qualche scambio di palla di cannone, e poi la lancia era scomparsa. Napoleone conosceva bene quei luoghi, essendo nato ad Ajaccio, città corsa non molto distante. Perciò non capì bene, inizialmente, cosa stesse succedendo. C’era un cannone che prendeva di mira la corvetta, l’ammiraglia della flotta, la Fauvette, armata di tutto punto. Nulla di strano, se non fosse che, quel cannone, in quel punto, non ci doveva essere. Il cannone era dietro le loro spalle, appostato in terraferma, nel promontorio di Palau. Era sicuro che non c’erano cannoni in quel punto, prima. Chi ce lo aveva portato? Nottetempo, il nocchiere maddalenino Domenico Leoni detto Millelire, con l’aiuto di ardimentosi volontari, fallito lo sbarco a Santo Stefano, si era diretto vero il punto opposto, verso la terraferma, e li aveva approntato, lavorando tutta la notte con volontari venuti da tutta la Gallura, la sua batteria, che ora, alle prime luci dell’alba, cannoneggiava senza sosta la “Fauvette”. Una mossa inaspettata. Poco male, penso il Comandante Francese Colonna Cesari, e fece per spostare la corvetta al riparo dell’isola, verso Caprera. Con sua somma sorpresa, la corvetta francese fu respinta da una piccola imbarcazione, la galeotta Sultana, con al comando il timoniere maddalenino Tommaso Zonza, che ricacciò indietro la corvetta francese. Che così si ritrovò nuovamente sotto il fuoco del cannone di Millelire, che nel frattempo lo aveva di nuovo spostato lungo la costa di Palau, intuendo i movimenti della corvetta. Napoleone, l’Imperatore, ripensò velocemente a tutte le grandi battaglie vinte. Guardò il soffitto, dal quale pendeva un magnifico lampadario di cristallo, adornato di decine di candele accese. Le onde si infrangevano nella scogliera, mentre sibilavano le palle di quel maledetto cannone. I marinai corsi, già poco convinti per quell’attacco all’isola gemella, iniziarono a dare segni di impazienza. Doveva essere una scaramuccia, la celebrazione della Francia rivoluzionaria, non un inferno. Quel cannone continuava a spostarsi e per le navi francesi, dovunque andassero, non c’era scampo. Il comandante Colonna Cesari, in preda allo sconforto suo e dell’equipaggio, ordinò infine la ritirata. Era il 25 febbraio del 1793. Solo lui, Napoleone, era rimasto impavido sul forte di Santo Stefano a bombardare con i suoi mortai l’abitato e le imbarcazioni dell’Isola. Da Cagliari, intanto, nessun esercito francese si era messo in marcia lungo le fertili pianure campidanesi. Le milizie popolari sarde, infatti, avevano messo in fuga il potente esercito da sbarco francese. Si era fatto tardi, pensò l’Imperatore, e forse era il caso di ritirarsi nella sua stanza, di firmare le ultime carte, di affidare gli ultimi dispacci ai suoi uomini di fiducia. La sua storia personale, gloriosa, lo aveva reso Imperatore. Poteva anche non pensare a quella sua prima, giovanile, ingloriosa ritirata. Pensò per un attimo a quel nocchiere, arguto e coraggioso, che aveva architettato quella strategia così inaspettata. Sapeva che aveva ottenuto la medaglia d’oro al valor militare, e nulla più. Però, da quella prima sconfitta, l’imperatore aveva tratto lezioni utili al proseguo della sua carriera. Quella notte troppi pensieri, il sonno tardava ad abbracciarlo. Eppure, avrebbe dovuto immaginarlo. I sardi, in fondo, non sono tanto diversi dai corsi. Avrebbe dovuto capire subito che la libertà, offerta con le armi e con un esercito dietro, non sarebbe stata loro cosa gradita.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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