La storia che sto per raccontarvi è una tra le più prodigiose prove di sopravvivenza umana in condizione estreme mai conosciute, ma viene anche ricordata per i raccapriccianti sacrifici che i sopravvissuti dovettero accettare per sfuggire alla morte. Due mesi e mezzo ad oltre tremila metri di quota, invisibili ai soccorsi, con la macabra compagnia dei cadaveri dei passeggeri deceduti nello schianto, i cui corpi divennero cibo per i vivi. La storia inizia il 12 ottobre del 1973, quando un Fokker F27 delle linee aeree uruguaiane ceduto a noleggio ad un equipaggio privato decolla da Montevideo per raggiungere Santiago del Cile, dopo avere scavalcato le Ande. I 40 passeggeri (più i cinque uomini di equipaggio) erano quasi tutti giovani atleti ed accompagnatori di una squadra di rugby di Montevideo, la Old Christian club, con l’eccezione di una donna, la signora Graciela Mariani, in viaggio per il Cile per assistere al matrimonio della figlia. Le condizioni del tempo sono pessime, perciò il volo deve improvvisare uno scalo in un aeroporto di Mendoza, in Argentina, dove i passeggeri pernottano per la notte in attesa della nuova partenza. Il viaggio ricomincia il giorno dopo, quando il comandante Julio Cesar Ferradas e il vice Dante Lagurara ritengono sufficienti le garanzie di sicurezza: il Fokker viaggia verso sud, vira ad ovest e cerca un varco tra la Cordigliera andina per planare sulla capitale cilena, secondo il piano di volo. Ma i calcoli di Lagurara, ai comandi dell’aereo, sono sbagliati: le montagne hanno un’altitudine superiore a quella prevista e un’ala dell’aereo colpisce una vetta, staccandosi dalla fusoliera e spezzando come una gigantesca lama la coda del velivolo, dalla quale precipitano alcuni dei passeggeri: per loro la morte sarà immediata. L’aereo, come un insetto menomato, striscia su un pendio nevoso e si ferma a 3600 metri di quota, in una zona isolata ed invisibile ai soccorsi, che pure partono tempestivi ma non ottengono alcun risultato e vengono interrotti dopo circa una settimana. I superstiti, attorniati dai cadaveri, si accampano dentro la fusoliera, i cui squarci vengono chiusi alla meglio con pile di valigie ed altre masserizie. Mangiano un tozzo di pane a pranzo e un cubetto di cioccolato alla sera, così viene deciso per amministrare le riserve di cibo. Nando Parrado, uno dei componenti della spedizione sportiva, viene dato per morto ed abbandonato al suo destino, ma il giorno dopo riprende conoscenza e pian piano si rimette in forze. I giorni trascorrono nella crescente disperazione, diventata terrore il 29 di ottobre quando una valanga uccide altre otto persone. Esaurite le riserve di cibo e fiaccata dalla fame la resistenza dei sopravvissuti, questi decidono dopo una sofferta discussione di cibarsi dei resti delle vittime, tra le quali vi erano anche madri e sorelle. Non bastano, per evitare questo orrore, le scorte di cibo recuperate nella coda dell’aereo, localizzata a qualche centinaio di metri di distanza dai passeggeri Nando Parrado e Roberto Canessa, usciti in perlustrazione assieme ad altri due compagni. Uno di loro, Numa Turcatti, non resse alle condizioni estreme e, debilitato da ferite e denutrizione, morì. Tra i bagagli ritrovati nella coda, anche una macchina fotografica con cui vennero documentati alcuni momenti di quella tremenda esperienza. Il 12 dicembre, Parrado e Canessa tentano il tutto per tutto. Muniti di un rudimentale sacco a pelo escono alla ricerca di un qualche luogo abitato, camminando in direzione del Cile. Marceranno per dieci giorni prima che un mandriano, Sergio Catalan, li intraveda sulle sponde di un fiume. Ascolta sbalordito la loro storia, convinti com’era che nessuno fosse scampato al disastro del 13 ottobre. I due miracolati vengono soccorsi e sfamati, quindi viene lanciato l’allarme. Il 23 dicembre, due aerei del reggimento di montagna dell’esercito cileno, agli ordini del colonnello Morel ed indirizzati dai superstiti, raggiungono il luogo del disastro e mettono in salvo gli altri 14 passeggeri. Alcuni di loro hanno perso 40 chili e devono sottoporsi ad un lungo ricovero per recuperare le forze, ma possono raccontare di essere sfuggiti alla morte. Oggi, il luogo del disastro è meta di spedizioni di alpinisti e curiosi, per i quali quella epica prova di resistenza – raccontata nel film Alive del 1993 – rappresenta un’irresistibile attrazione.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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