Indro Montanelli era uno che divideva. Divideva anche me, combattuto tra profonda ammirazione professionale e netta distanza ideologica da certe sue posizioni e repulsione per alcune sue scelte. In Italia ci si divide su tutto, è vero. Ma credo, onestamente, che natura e atti del giornalista, uomo e intellettuale Montanelli non potessero che dividere. Ne scrivo oggi, perché il 22 luglio di sedici anni fa Montanelli lasciava questo mondo, dopo 92 anni di un’esistenza vissuta intensamente, assistendo in prima persona a tutti i fatti epocali del tumultuoso Novecento. Ho un’eta che mi ha permesso di conoscere direttamente solo l’ultima parte della carriera di Montanelli. Non dirò nulla sul suo matrimonio con una bambina eritrea durante l’effimero impero, della sua convinta fede fascista svanita l’8 settembre, del suo misterioso anno in Svizzera e del suo discusso appoggio alla Resistenza con probabile, ma mai chiarita del tutto, condanna a morte, scongiurata dalla fuga: è la parte di Montanelli che ha sempre frenato la mia sconfinata ammirazione per la chiarezza e il coraggio delle sue cronache. Ma Montanelli è stato anche colui che dalle colonne del Corriere della Sera ha avuto il coraggio di dire, in tempi in cui ci voleva coraggio fisico a dirlo, che il commissario Calabresi era stato ucciso da un linciaggio mediatico vergognoso. Montanelli il piombo dei brigatisti lo ha avuto conficcato in corpo, in quel 1977, quando la colonna milanese delle Br sparò contro di lui, negli anni degli agguati mortali ai giornalisti non allineati. Ci furono giornali che omisero il suo nome dai titoli, lui nelle cronache dei giorni successivi raccontò dei salotti milanesi e romani in cui la sua gambizzazione venne festeggiata con appositi brindisi. Ma io ho amato Montanelli nel 1994, quando sbatté la porta de Il Giornale di sua fondazione perché non aveva alcuna intenzione di assecondare la linea dell’editore Berlusconi, prossimo alla sua avventura politica. Conducevo una rassegna stampa per una piccola radio locale e avevo già allora il sogno di essere giornalista: quella lotta per la libertà personale mi sembrava qualcosa di eroico, così come eroica mi sembrò la fondazione de La Voce. Un esperimento fallito subito, purtroppo. Predisse, sbagliando, che l’Italia si sarebbe liberata di Berlusconi solo dopo avere sviluppato gli anticorpi del caso: non aveva grande considerazione dell’Italia, ma in questa previsione dimostrò di averne troppa. A me, in quegli anni, il rifiuto di Montanelli di obbedire agli ordini dell’editore sembrò davvero un esempio di libertà, di schiena dritta, di amore per la professione. Dopo aver conosciuto il giornalismo da dentro, quella mia opinione si è rafforzata.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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