A trovare il cadavere, incastrato tra i rami di un albero, furono alcuni passeggeri di un traghetto che solcava le acque del Wolf River, a Memphis. Era il 4 giugno 1997 e Jeff Buckley era scomparso da una settimana. Aveva deciso di farsi una nuotata sul fiume, completamente vestito, stivali compresi. Non era la prima volta. L’uomo che avrebbe dovuto accompagnarlo a Memphis, Keith Foti, raccontò di averlo visto entrare in acqua cantando “Whole lotta love” dei Led Zeppelin e raggiungere i piloni della strada per poi perderlo di vista. L’autopsia sciolse ogni sospetto sulle cause della morte. Niente alcool né droga nel suo corpo. Jeff Buckley aveva semplicemente deciso di farsi una nuotata nel Wolf River, trovando la morte, probabilmente, in un gorgo creato dal passaggio di un rimorchiatore.
Raramente ho sentito tanto vicino un artista come è accaduto con Jeff Buckley. Quando sentii per la prima volta “Grace”, rimasi stordito. Come se, per la prima volta, qualcuno fosse riuscito a leggere dentro di me quale combinazione di note avrebbe potuto accarezzarmi l’anima. Mi sono sempre chiesto da quali profondità scaturisse quella straordinaria purezza che si respira in ogni sua canzone. Ho pensato al suo background, a ciò che ascoltava. Dai Led Zeppelin a Jimi Hendrix, da Billie Holiday a Leonard Cohen, dai Cocteau Twins a Nusrat Fateh Ali Khan, senza disdegnare il punk. Era più o meno ciò che ascoltavo anche io. Ma non avevo mai sentito nessuno, prima di allora e in quegli anni, riuscire a impadronirsi dello spirito autentico della musica che amavo e che credevo perduto. E lo faceva con la semplicità di un ragazzo di trent’anni come tanti, senza look e pretese da rockstar ma con un talento cristallino e una forza interpretativa che spaziava dalla furia alla carezza toccando tutte le sfumature delle mie emozioni, nessuna esclusa.
Jeff Buckley è stato un grande rammarico. Perché mai sapremo cosa sarebbe arrivato dopo quel suo disco che rappresenta uno dei più straordinari esordi della storia del rock. Continuerò ad ascoltare la sua musica e la sua voce, a leggere i suoi testi pieni di sentimento, a cercare vanamente di seguire le sue impossibili evoluzioni vocali e continuerò, ogni santa volta, a sentire vibrare qualcosa dentro di me che non so esattamente dove si trovi.
Un anno prima del tuffo fatale, Jeff Buckley aveva dato vita a un tour in piccoli locali. Nelle locandine, però, il suo nome non c’era mai. Si presentava con nomi diversi e improbabili. Spiegò che sentiva il bisogno di esibirsi come un tempo, con il pubblico che non ti conosce e che puoi divertire o deludere. Sentiva la necessità di assaporare ancora il rischio di non essere apprezzato, di fallire, desiderava continuare a imparare qualcosa di nuovo dalle sue performance. “Amavo tutte queste cose e, quando sono scomparse, mi sono mancate. Me le sono soltanto riprese”.
Jeff Buckley non sarebbe mai diventato una rockstar.
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