Quando, il 21 settembre del 1990 venne ucciso il giudice Rosario Livatino era un venerdì ed io, quel giorno, ero all’Asinara. Lo ricordo perché ci affrettavamo, come ogni fine settimana, ad uscire dall’isola. C’era un levante fortissimo che ci costrinse a passare da Stintino. A Fornelli appresi la notizia. Me lo disse il capo diramazione: “Hanno ammazzato un giudice, ad Agrigento”. Eravamo appena usciti dall’incubo del terrorismo. All’Asinara si parlava ormai di “carcere leggero”, si tentava di disegnare quello che poi, nel 1998, sarebbe diventato un parco nazionale. Quella morte piombò sull’isola come una frustata. Non c’erano moltissime notizie a quei tempi. Solo il telegiornale che raccontava di un sostituto procuratore di 38 anni ucciso mentre si recava a lavorare, al tribunale di Agrigento. Quella notizia, tra il frastuono delle onde e la voglia di ritornare comunque a casa, rimase imbrigliata alle mie sensazioni. Che non erano buone. Non si avevano molti strumenti per analizzare quell’omicidio ma dalle poche cose che si sapevano era chiaro che Livatino fosse un personaggio scomodo, uno che stava indagando su qualcosa di davvero complesso. Amava la legge il giudice Livatino e la applicava fermamente. Combatteva la mafia con uno strumento nuovo e allora rivoluzionario: la confisca dei beni. Si cominciava a comprendere che occorreva toccare il patrimonio e non permettere a queste persone di riciclare il proprio denaro attraverso una serie di operazioni che li avrebbe portati a sedersi sui tavoli buoni della finanza (sempre che ci siano mai stati tavoli buoni da quelle parti). Il giudice Rosario Livatino se ne andò dietro gli spari di gente senza scrupoli, senza poter chiedere neppure il perché. Non avevamo capito, nel 1990, che quel lavoro immenso cominciato da Falcone e Borsellino proprio all’Asinara, cominciava a fare paura. La mafia, per la prima volta, aveva compreso che c’erano uomini disposti a rimanere tali perché, come scriveva Rosario Livatino “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Ecco, un uomo giusto, retto, un uomo per bene e non come sempre si tende a ricordarlo un giudice ragazzino. Con lui la giustizia e il senso dello Stato erano adulti e ben radicati dalla parte della legalità e la mafia lo aveva capito benissimo.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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