Il 21 giugno del 1966 morì Salvator Ruju, il più grande poeta sassarese e uno dei più grandi in Sardegna. Il giudizio sulla grandezza è mio, non è una questione oggettiva. Però vi assicuro che è ampiamente e autorevolmente condiviso. Ma il motivo per cui ne parlo è soprattutto legato al fatto che questo pomeriggio alle ore 17 Salvator Ruju verrà ricordato in una bella serata nel Palazzo della Provincia di Sassari. Ci saranno alcuni interventi su di lui e ci saranno letture di brani dalle sue opere compiute da attori bravissimi. E siccome io faccio parte della serata (settore interventi) ne approfitto per pubblicizzarla e insieme per onorare il turno di SardegnaBlogger che oggi attribuisce a me la quotidiana puntata dell’Agenda. Ruju, nato nel 1878, aveva due nomi: il suo, con il quale firmava poesia e prosa in lingua italiana, e quello di Agniru Canu, lo pseudonimo con cui firmava la produzione poetica in lingua sassarese. Niente a che vedere con Jekyll e Hyde, nessun desiderio di nascondere personalità innominabili o tendenze imbarazzanti. Il Sassarese per il poeta aveva la stessa nobiltà dell’Italiano e di ogni altra lingua, lo aveva studiato con lo stesso puntiglio e lo usava con la medesima agilità. E neppure si può dire che la lingua della sua città gli venisse più agevole per raccontare la sua città. Se c’è infatti una cosa che Sassari deve a Ruju è quella di avere tolto al Sassarese la patente della lingua della cionfra, della burla spesso volgare, per restituirgli la dignità di un codice nel quale ogni cosa può essere espressa. Ma forse certi angolini della sua memoria gentile erano più aperti alla sua lingua dell’infanzia. Ci sono alcuni misteriosi imprinting ai quali è difficile dare un senso psicologico o letterario. Io a esempio sin da bambino nella mia famiglia ho sempre parlato in Italiano. Usavo il sassarese soltanto con mio nonno materno e con la maggior parte dei miei amici di strada. Eppure nelle reazioni istintive mi salta fuori il Sassarese. Se mi faccio male dico parolacce sassaresi. Quando una telefonata mi comunicò che mio padre era morto proprio l’unico momento dei suoi ultimi giorni in cui mi ero allontanato dal suo capezzale, piansi e imprecai in Sassarese. E infatti nella produzione sassarese raccolta in “Agnireddu e Rusina” e in “Sassari veccia e noba”, è più facile trovare questa eterna infanzia, l’emozione apparentemente spontanea ma in realtà filtrata da studio e riflessione, come fa ogni bravo scrittore. Nei suoi soggiorni fuori dalla Sardegna ha respirato il meglio della cultura italiana della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. Ho donato da poco al Comune di Sassari un suo quaderno del quale ero entrato in possesso e dove, con la sua grafia chiara, aveva copiato parte della sua corrispondenza con alcuni tra i più alti rappresentanti della cultura e dell’arte italiane. A Sassari gli hanno intitolato una piazza al centro della quale c’è un suo busto in bronzo. Ci passo tutti i giorni perché lì c’è la mia edicola. E vi giuro che è una delle poche piazze e vie sassaresi dove tutti i sassaresi, proprio tutti quelli che ci abitano o che ci capitano, come fosse viale Dante o l’emiciclo Garibaldi, sanno di chi si sta parlando.
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Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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