Andò che durante il XVII congresso del Partito Socialista, una minoranza guidata da Gramsci, Togliatti, Bordiga, Terracini ecc, ruppe con il resto del Partito. La frattura si consumò, tra l’altro, sui “21 punti di Mosca”. In sostanza si preferì la rivoluzione alle riforme. Per meglio discutere gli scissionisti abbandonarono il Teatro dove si svolgeva il Congresso (il Goldoni), per andare a riunirsi in un altro teatro, il San Marco. Lì diedero vita al Partito comunista d’Italia, poi PCI. La storia è alla portata di tutti. Facendo un giro su internet si trova materiale in abbondanza per capire cosa successe quel giorno e negli anni successivi, fino al 1991, settanta anni dopo, quando il PCI iniziò quella serie di mutazioni forse un po’ gattopardesche che per ora hanno prodotto, tra le altre cose, il PD di Renzi. Io ricordo volentieri questo anniversario, perché negli anni 80, quando ero un ragazzo e facevo sogni da ragazzo, il PCI esisteva ancora, esisteva l’URSS, il Muro era in piedi, a La Maddalena c’erano i sottomarini nucleari USA, e le BR sparavano ancora. E io, senza tessere, senza cultura politica, senza strumenti che non fossero quelli presi in prestito dai ragazzi più grandi di me, scoprivo nel giro di un paio di estati Guccini, De Andrè, De Gregori, Vecchioni, Gaber. E scoprivo che mi piaceva l’idea di essere un comunista. Non riesco oggi a districare quel cespuglio di idee, speranze e fandonie ch’entro mi ruggiva, ma che non di rado, semplicemente, miagolava. Non riesco neanche a farmi lucidamente domande come: si stava meglio o si stava peggio? Non ci riesco, perché appena le formulo mi sembra che non abbiano alcun senso. Perché il senso, appunto, non è nello stare meglio tout court, non lo era, non lo è mai stato, o almeno non ci hanno avvisato. Il senso era, come diceva Gaber, sentire di poter “essere liberi e felici solo se lo erano anche gli altri”. Forse, di tutte le eredità possibili scaturite da quel 21 gennaio del ’21, la più negletta è proprio quel senso dell’appartenenza a qualcosa di collettivo, di generale, di universale. Qualcosa che non può morire dietro l’angolo, appena raggiunto quel benessere che per i nostri nonni cresciuti tra due guerre era solo un miraggio. Qualcosa che invece, piano piano, è morto, proprio in virtù di quel benessere tanto agognato, che una volta arrivato si è rivelato almeno in parte tossico. Infatti ha smesso di farci “tendere”, mi viene da dire; come se ci avesse imbolsiti e storditi tutti. Quel 21 gennaio nasceva una delle speranze più grandi che l’Occidente moderno abbia conosciuto. È durata, sotto quella forma, settant’anni, spegnendosi ormai decrepita e inutilizzabile. Restano in piedi alcune domande, che anche a sinistra in molti non vogliono farsi più, per non parlare di chi oggi ancora si azzarda a parlare di rivoluzione: Lega, Forconi, Movimento 5 Stelle ecc. Una di queste domande nasce di fronte a chi è costretto a rifugiarsi all’ombra del nostro benessere per non morire di fame o di guerra ed è: come possiamo pretendere di essere liberi e felici, se non lo sono anche loro?
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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