Il mio personaggio preferito è lui, Ziu Juanne, il vecchietto del bosco. Si, quello che taglia gli alberi nel bosco, l’ultimo che ancora si fa la legna per il caminetto, o per la stufa a legna. Sono sempre più anziani quelli che ancora si fanno la provvista “ad uso familiare”, una formula che è una liberatoria amministrativa per chi taglia poche decine di quintali di legna per gli usi domestici. Vi devo una spiegazione, ovvio, per chi mi conosce come strenuo difensore del bosco. Eppure credetemi, il miglior alleato del bosco è proprio lui, il vecchietto che si riempie il camioncino di legna. Nella nostra cultura binaria, oppositiva, dove tutto è bianco oppure nero, giusto o sbagliato, e dove il messaggio cammina solo se semplificato, un tizio che taglia alberi non può che essere dalla parte del torto e contro l’ambiente e la natura, nemico delle piante e del bosco. Eppure è esattamente il contrario. La retorica ambientalista di oggi vede il male nel taglio degli alberi e il bene nel reimpiantare alberi. Vi sono movimenti ambientalisti che propongono il rimboschimento un po’ dappertutto, tecnici che si improvvisano silvicultori proponendo di reimpiantare gli alberi dopo il passaggio dell’incendio, e così via. L’idea di piantare alberi è un vero e proprio “must”, una mania che nasce anche dalla visione di quel bellissimo cortometraggio “L’uomo che piantava gli alberi”. Una cosa di cui, in realtà, la Sardegna non ha, in linea di massima, bisogno. Perché il problema di cui soffre l’ecologia dell’isola, specie dopo il diffuso abbandono dell’agricoltura, è esattamente l’opposto. Il vero problema è gestire i boschi esistenti, ormai completamente in stato di abbandono. L’isola è ricoperta da una vastissima distesa di macchia mediterranea, ricresciuta a causa dell’abbandono dei terreni, che oramai ha riportato l’isola ai livelli verdi del lontano passato, di prima del distruttivo disboscamento dell’800. Una marea di verde, però, completamente abbandonata al suo destino e al rischio di incendi. Si tratta della vegetazione ricresciuta dopo l’abbandono di pascoli e campi coltivati, macchie degradate che per tornare a diventare bosco in tempi cristiani ha necessità di cure selvicolturali. Un enorme patrimonio che ha accumulato la fertilità nel corso degli anni e potrebbe rendere sia come bosco che come campo restituito all’agricoltura. Ma resta così, una via di mezzo che non è ne carne ne pesce, improduttivo. Altri boschi poi, sono in stato di abbandono, soffocati dalle liane e dalle specie invasive, in balia dei parassiti; in altri casi, come quello delle pinete costiere, all’impianto delle conifere dei decenni scorsi non ha fatto seguito il previsto diradamento, sicché oggi, con la crescita delle piante, esse sono in uno stato di grave sofferenza e soffocamento a causa dell’affollamento. Poi ci sono i boschi bruciati. Capisco che per molti valga l’idea romantica che la natura, lasciata libera, ricrei condizioni ecologiche ideali. Ma purtroppo non è proprio così. I boschi del pianeta non sono altro che il frutto di una simbiosi, di una lunga convivenza con la specie invasiva della terra, l’uomo. Prima l’uomo gli ha distrutti, i boschi, e ora abbandonati. Sono boschi, invece, che necessitano di cure. Per fare un esempio chiaro: abbandonare un bosco oggi è come abbandonare un cane in autostrada. E’ in questi casi che il vecchietto che taglia le piante, diventa il miglior amico del bosco e alleato della guardia forestale. Esso infatti, grazie alla sua esperienza e ai suggerimenti delle guardie forestali, opera con un taglio mirato, scegliendo le piante seccaginose che sottraggono sostanza organica inutilmente, quelle malaticce che rischiano di diffondere malattie, quelle che ormai sono deperienti e stramature, operando delle potature mirate dando, in questo modo, aria e luce al bosco, vitali per la sua crescita. Aria e luce. Il bosco non ha bisogno di altro, per vivere. Di aria, luce, e di stagioni non troppo siccitose. E qualche volta il bosco, sopraffatto dalle liane, chino su se stesso, con le povere chiome alla disperata ricerca di un raggio di sole, ti chiede un po’ di aiuto. In questo modo il bosco non viene sopraffatto dalle specie infestanti e dalle lianose, e si irrobustisce, fortificandosi contro le malattie e trasformandosi da esca a baluardo contro gli incendi Si chiamano cure colturali. E si tratta delle ultime sopravvivenze di una simbiosi che ha visto per millenni boschi e uomini vivere in amicizia, prima che l’avidità dell’irruzione dell’economia di mercato trasformasse il cuore degli uomini. E dopo gli incendi, non serve andare a ripiantare alberi. Le radici spesso, sotto, sono ancora vive, ed è sufficiente tagliare a regola d’arte il mozzicone bruciato per far ripartire il bosco. Le sughere, poi, con la loro corteccia spugnosa, sono l’adattamento mediterraneo alla millenaria convivenza con gli incendi. Vedere dalle piante di sughera carbonizzate far ripartire improvvisamente, con le prime piogge, la verde chioma, (come quelle della foto) è uno spettacolo tanto inaspettato quanto emozionante. L’uomo, spesso, è convinto di essere la mano di Dio. A volte, invece, è sufficiente lasciar fare alla natura, cercando di fare meno danni possibili, e dando quel piccolo aiuto quando serve. Aria e luce. Tutto qua. Ziu Juanni, mi raccomando, tienila bassa la motosega, che se lo tagli alto il pollone poi non ricaccia. Eh, già lo so, ma con l’età la schiena fa male… sai com’è. E i miei figli in foresta non ci vengono, non gli piace.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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