Il 20 maggio del 1945 morì Giuseppe Biasi. E anche oggi probabilmente, come da qualche anno succede in questa data, qualcuno cercherà di presentarlo come un martire ucciso dai partigiani. Avviene specialmente a Sassari, la sua città. A parte il fatto che non era fascista e che non fu ucciso dai partigiani, mi chiedo se i fascisti davvero uccisi dall’esplosione di violenza suscitata dallo stesso Fascismo possano essere ritenuti martiri. Il martirio è il sacrificio volontario e cosciente della vita in nome di un ideale. Ma i fascisti, soprattutto in questi anni di raccapricciante revisionismo sul Fascismo storico e quindi anche su quello attuale, hanno bisogno di un loro martirologio che serva a dare alla loro confusa e nefasta ideologia la dignità di tutte le altre. Soltanto l’altro giorno ho visto in tv Alessandra Mussolini che incalzava la giornalista, che improvvidamente l’aveva ospitata, oltre a una docente di Storia, anch’essa ospite, all’urlo di “Ma è stata una barbarie fare a Mussolini quello che gli hanno fatto? Rispondete, rispondete!”. E ripetendo la domanda ossessivamente non dava ovviamente modo alle interlocutrici di rispondere. Sembrava Sgarbi con il suo “Capra! Capra!”. E infatti appartengono allo stesso Carro di Tespi mediatico. Una compagnia di giro che percorre i vari talk show che li invitano per fare audience. Forse la storica, se avesse potuto parlare, avrebbe ricordato che nello stesso piazzale Loreto dove vennero esposti i corpi di Mussolini, della povera Petacci e di altri fascisti, pochi mesi prima erano stati ammazzati quindici partigiani. A ucciderli furono i fascisti della Legione “Muti”, che lasciarono i corpi dei giovani esposti agli occhi dei milanesi che, armi alla mano, venivano obbligati a guardare i cadaveri oltraggiati dagli stessi assassini che li coprivano di insulti e sputi. E in quell’Aprile del ’45, orrendo contrappasso per analogia, nello stesso angolo di piazza finì il cadavere del principale mandante di quella ennesima strage compiuta dai fascisti. Era possibile pregare i fascisti di farsi gentilmente da parte dopo avere rovinato l’Italia e contribuito a rovinare il mondo? Ma davvero si può pensare che la Guerra di Liberazione si potesse compiere senza morti, che fosse la sete di sangue a muovere uomini come Parri, come Pertini e come tutti quelli che in quel bagno di violenza hanno costruito una democrazia così solida da consentire alla nipote di Mussolini di andare in tv? E quindi oggi 20 maggio i fascisti nella loro ricerca di legittimazione ripeteranno che il grande artista italiano Giuseppe Biasi quel giorno venne linciato dai partigiani. In realtà Biasi non era neppure fascista. Era un filogermanico sul piano culturale, niente a che vedere con il nazismo. Lo era sin da ragazzo per motivi artistici, quando aveva aderito al movimento della Wiener Secession. Nel 1942 finì a Biella, in una zona che dopo il ’43 diventò teatro teso e continuo di scontri tra nazifascisti e partigiani. Un pezzo d’Italia dove la violenza degli invasori e dei loro complici e quella necessaria di chi si ribellava all’oppressione erano un fatto quotidiano di cui la popolazione era drammaticamente intrisa. Biasi prese a frequentare i soldati tedeschi, con i quali faceva lunghe chiacchierate. Sembra che per la sua conoscenza della lingua fosse stato anche utilizzato come interprete negli interrogatori dei partigiani catturati. Ma, dopo la capitolazione dei nazifascisti, a portarlo alla rovina furono più probabilmente le dicerie montate ad arte dai pittori locali inveleniti per la sua superiore genialità. Venne arrestato come fascista e mentre il 20 maggio i partigiani lo scortavano con altri prigionieri verso un campo di prigionia ad Andorno Micca, un paese dell’alto Piemonte che si chiama così perché c’è nato Pietro Micca, una piccola folla prese a seguire il convoglio. C’erano anche donne – racconta un testimone, Luigi Bonzano – che poche ore prima erano in chiesa con atteggiamento mistico e che ora incitavano i loro uomini contro i prigionieri. Il camion si bloccò su una salita, i pochi partigiani di scorta, preoccupati, fecero scendere i prigionieri per portarli in salvo. Biasi era rimasto in fondo al cassone, era claudicante per una vecchia ferita. Mentre tentava di scendere si trovò solo perché i partigiani si erano già spostati sul davanti del camion. Fu allora che rivolgendosi ai più vicini tra quelli che urlavano contro i prigionieri, disse pressappoco: “State attenti, siamo prigionieri ma siamo protetti”. Voleva dire che erano protetti dai partigiani. La frase scatenò l’ira di un poco di buono, un esaltato che non aveva niente a che fare con i partigiani e che più che altro voleva farsi bello con le donne che urlavano. Questi scaraventò Biasi giù dal camion facendogli sbattere con violenza la testa. Poi prese a colpirlo al capo con la fibbia della cintura, ma probabilmente l’artista era già morto. Vittima della violenza partigiana? Vittima della violenza lo fu di certo, quella violenza di ogni guerra cavalcata dai revisionisti della storia che ora, in un contesto sempre meno ideologizzato e sempre più superficiale, riscuotono un seguito che qualche volta rischia di attecchire persino nella coscienza storiografica. Del resto proprio in questo ambito è stata creata in tempi moderni la leggenda di un Renzo De Felice perseguitato dalla dominante cultura di sinistra e per questo condannato alla sfortuna accademica. A parte il fatto che tutti i volumi della sua immensa biografia di Mussolini furono pubblicati dalla “comunista” Einaudi, De Felice mise in cattedra circa trenta suoi allievi e veniva giudicato unanimemente il padre della moderna storiografia sul Fascismo. Ma al suo funerale, nel 1996, parteciparono schiere di fascisti che accolsero il feretro con il braccio teso. E ora c’è una generazione di “divulgatori” ben rappresentati da Gian Paolo Pansa, che con poveri stereotipi sulla violenza partigiana si atteggiano a nuovi De Felice. Bisogna starci attenti. Il Fascismo conquistò il potere anche mistificando la propria forza. E una volta al potere, come ogni dittatura in ogni parte del mondo, conquistò un consenso che – come De Felice per primo ha spiegato compiutamente – era reale.
Nell’illustrazione, “Mattino in un villaggio sardo”, di Giuseppe Biasi
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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