La macchina del tempo è quella rubrica che mi offre l’opportunità di vagabondare liberamente nel passato, ma oggi no. Oggi m’inchioda fermamente alla ricorrenza presente nel calendario. Esattamente 10 anni fa, dopo un’estenuante lotta contro la sofferenza e l’utopistico diritto di decidere della propria morte, si spegneva Piergiorgio Welby. Come si può ignorare una commemorazione così sofferta e importante? Un anniversario di cui mi è difficilissimo scrivere, ma che in coscienza non posso ignorare sia per il dramma individuale e sia perché ha segnato un punto importantissimo nella possibilità di autodeterminazione in merito alla scelta della propria morte.
Quella di Welby, alla pari di poche altre, è una vicenda che chiama in causa tutte le componenti del discorso bioetico: quella medica, morale, religiosa e giuridica. Il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia si sposta millimetricamente in relazione a convinzioni personali e ideologia, fede e concezione di vita, idee e princìpi che conferiscono una visione assolutamente soggettiva della dignità del morire umano.
A Piergiorgio Welby, all’età di 16 anni, viene diagnosticata la distrofia muscolare progressiva. Una prognosi che è un verdetto di morte, una bomba a orologeria della quale viene stimata anche la data della detonazione: – Non supererà i 20 anni – gli viene detto allora, sbagliando.
Non morirà, ma quello a cui andrà incontro sarà un declino progressivo e inarrestabile. La malattia gli fa perdere per primo l’uso delle gambe, poi tutti gli altri muscoli seguono la stessa sorte. Lui raccomanda alla moglie di non chiamare i soccorsi in caso di crisi respiratoria, una disposizione però largamente disattesa in occasione del primo scompenso polmonare. In quel preciso istante nella sua vita è calato il silenzio, quello che Raimbault definiva la maschera della finzione del morente rispetto ai desideri dei vivi.
Da allora ha vissuto immobilizzato su un letto, tracheotomizzato e ventilato artificialmente, idratato e nutrito meccanicamente. Non ha mai smesso di domandare disperatamente una fine dignitosa, una scadenza per quella mole di sofferenza che era costretto a sopportare, un termine per il suo calvario. Ha chiesto, urlato, scongiurato, pregato, invocato. Inutilmente. Si è spinto fino a Giorgio Napolitano con una lettera di supplica affinché acconsentisse all’eutanasia. La risposta gli è arrivata dal Tribunale di Roma che dichiarava inaccettabile la sua richiesta a causa della mancanza di una specifica normativa in proposito. Si rivolge al medico di famiglia, gli implora di staccare quella maledetta spina del respiratore e riceve l’ennesimo diniego. Ma poi un anestesista, il dott. Mario Riccio, accoglie la supplica. E nella notte tra il 20 e il 21 dicembre, si reca a casa di Welby e dopo avergli praticato un’opportuna sedazione stacca il respiratore che da 45 anni finge di far somigliare una sopravvivenza a una vita. Regalando a quell’uomo, ormai morto da tempo, il più bel Natale che potesse desiderare. Finalmente altrove.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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