Quest’anno sono stato a Bologna per lavoro. C’ero capitato altre volte per delle presentazioni di alcuni miei libri ma in quelle occasioni non mi ero recato alla stazione. Stavolta avevo l’albergo proprio davanti e i primi giorni l’ho scrutata da lontano. Forse per paura, probabilmente per rispetto. Rappresentava il monumento alla mia angoscia, al mio muto osservare quelle immagini in bianco e nero, quelle sirene silenziose nel rumore della morte. Poi, con coraggio – molto coraggio – mi sono avvicinato all’entrata principale e ho virato a sinistra dove c’era la sala d’attesa. Quella della bomba. Molte persone passavano con giusta normalità, pochi facevano caso ad uno come me che, invece, era come assorto a rivedere un film dell’orrore, bloccato e attento con la segreta speranza che tutto potesse andare bene. Quella stanza ormai completamente rifatta, quell’orologioall’esterno fermo all’ora della strage, le dieci e venticinque, quella polvere di rabbia e di sudore, di disperazione e di impotenza la sentivo solo io, la respiravo solo io. Dentro quella stanza dove tutto pareva perfetto ho rivisto quelle sedie di legno, la bambina che giocava contando le mattonelle, il caldo e il cielo come un forno di pane. Ho rivisto i miei 21 anni, la voglia e la gioia di dover cambiare il mondo, l’esigenza di essere protagonista, la speranza di modificare qualche assetto. Poi il botto. Mi son seduto sulle nuove sedie di plastica e ho chiuso gli occhi. Ho atteso nella frescura di quel pomeriggio, ho atteso il rumore sordo e l’odore della polvere da sparo, ho atteso le urla e lo sgomento, la paura e la disperazione, ho atteso che tutto si fermasse e quella polvere si depositasse sulle coscienze di chi quella strage l’ha pianificata e voluta. Ho atteso come quando speri in una sentenza favorevole, in un giudice bravo a comprendere tutti i fatti. Ho atteso. Quella bomba è scoppiata, ha distrutto le mie speranze, la mia gioia e la mia voglia di modificare tutto. Mi sono alzato, ho letto tutti i nomi degli innocenti scritti su una lapide ad eterno ricordo. Li ho letti con calma ma non con serenità. Tutti. E a tutti ho ricordato i miei 21 anni, quel giorno maledetto, quel due agosto rovente nell’aria e nell’anima. Ho lasciato la stazione di Bologna e non mi sono voltato indietro. È un monumeto alla memoria dove il tempo si è fermato. È uno dei monumenti della mia tormentata gioventù quella dove è stata recisa la speranza. E le ferite sono rimaste. Per sempre.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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