di Maria Dore
Vi siete accorti che in Francia sono scesi in piazza? Da mesi, più o meno da quando guardavamo oltralpe per il caos post attentati terroristici, l’altro argomento che tiene banco è il lavoro, o meglio, una legge che lo riguarda. Si chiama semplicemente Loi Travail o anche loi el Khomri, dal nome del ministro che l’ha firmata. Capire cosa dica questa legge e giudicarla, se non si è un esperto del tema, non è facile; si è costretti a consultare organi di stampa e, allora, c’è chi dice che è pessima (stampa di sinistra, vedi quotidiani come Humanité), e la fazione di quelli che dicono che qualcosina di buono c’è e si può migliorare (Le Figaro, Le Monde). Un po’ come da noi per il Jobs Act: tra cinguettii e Istat, che sforna un resoconto un giorno sì e l’altro pure, si tende a trovare un’opinione o la conferma della propria tra i quotidiani, per vedere come alcuni diano risalto ai dati che riportano il segno “più”. Su Repubblica di qualche settimana fa, appena dopo il cambio di direttore, un articolo che ammoniva sul boom voucher era relegato nella sezione di economia e finanza, in basso alla pagina, sotto il Papa ospite degli industriali. Per fortuna, sullo stesso tema è tornato Fabrizio Gatti su l’Espresso e, altro esempio, oggi il Manifesto. Che sia la Loi Travail o Jobs Act, i temi attorno ai quali si costruisce la contesa sono anch’essi simili: la concessione alle imprese sulla facilità di licenziare, il nuovo vero lavoro che non si crea, l’aumento delle ore lavorative settimanali, che i francesi potrebbero, in alcuni casi definiti come “eccezionali”, vedere arrivare a 60. Esattamente dieci anni fa mi trovavo in Francia. Anche allora, nel mese di aprile, si accesero fortissime proteste contro un’altra legge in materia di lavoro. Era nota come “contrat première embauche”, o CPE, contratto di primo impiego. Fortemente voluta dal primo ministro de Villepen e dall’allora semisconosciuto (in Italia) Nicolas Sarkozy, permetteva il licenziamento senza giustificazione per i minori di 26 anni, entro i due anni dall’ottenimento dell’impiego. Le università furono occupate, le aule chiuse, non mancarono le auto date alle fiamme, le manganellate. Dopo un mese di blocco il governo ritirò la legge sul CPE. A testimonianza di quanto seria fosse stata la protesta, la maggioranza schiacciante degli studenti votò per la riapertura delle università una volta appresa la retromarcia del governo, lasciando isolata la minoranza dei furbastri che premevano per un blocco totale dell’anno accademico a causa della situazione non eccellente dei voti che rischiava di far ripetere loro l’anno ( sì, da quelle parti se non si ottiene una certa media, si ripete l’anno, come a scuola, mentre noi invece abbiamo questo strano istituto del “fuori corso” che ti trattiene dentro un’università per anni, così poi arriva il governo dei tecnici che consente l’aumento delle tasse per punirti e far fare cassa agli atenei). Eccola, la differenza. Se in Francia proponi un CPE o una Loi Travail succede qualcosa e il governo va a picco nei sondaggi. Qui il primo maggio lo si passa a decidere se sia meglio il concertone di Roma o quello di Taranto, controllare il meteo o, peggio ancora, se sei sardo, a inseguire il cocchio di Sant’Efisio chiedendo la grazia. Al concertone di Roma, ho letto, aprirà la Bandabardò. Voto Taranto.
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