Una volta era lecito indignarsi per fatti che oggi ci fanno vergognare di quell’indignazione.L’altro giorno, durante una sua lezione sugli effetti del berlusconismo, Aldo Giannuli ha ricordato con divertimento una campagna di stampa dell’Osservatore Romano ai tempi dei primi varietà televisivi, negli anni Sessanta.Il giornale del Vaticano si scagliò contro le soubrette colpevoli di indossare pantaloni troppo attillati, anche se non avevano manco un centimetro di pelle scoperta, riducendo quelle trasmissioni a “postriboli”, secondo la definizione dell’anonimo editorialista dell’Osservatore.
Altre volte, invece, mi capita di pensare che una certa indignazione sarebbe stato più giusto coltivarla, tenerla viva, anche se oggi sembra fuori moda, sorpassata e nessuno avrebbe più il coraggio di sposare certe battaglie puzzolenti di muffa.
Sto trascorrendo questa prima parte dell’estate nella cantina di casa, dove la temperatura è fresca e i rumori del mondo giungono molto attutiti.Non sento alcun bisogno di uscirne, anche se ogni tanto mi viene in mente che dovrei andare al mare a fare un bagno.Però poi scopro di non averne voglia e di non essere affatto obbligato ad andarci, perché sarebbe un peccato spezzare la sonnolenta magia della cantina, dove la luce entra smorzata dalle bocche di lupo e sembra sempre di essere al tramonto.Nella mia cantina c’è un grande televisore e, sul tavolo dove alle feste comandate si riunisce la famiglia, io sto al computer.Devo scrivere la recensione privata alla bozza di romanzo inviatami tempo fa da un amico, ma il romanzo è troppo bello e io non trovo le parole giuste.Ogni tanto leggo qualche pagina di un libro di Carrère, poi guardo pochi minuti di un film rimasto in arretrato, quindi mi metto a scrivere perché devo rimodulare il format delle presentazioni del mio ultimo libro.Mentre faccio tutto questo, tengo la televisione accesa su un canale youtube che trasmette canti gregoriani.I Canti gregoriani trasmettono a loro volta pace, armonia e una serenità che toglie ogni senso di colpa e dà un’idea di solennità alle mie misere occupazioni.Solo che, ogni cinque minuti, i Canti vengono interrotti da un messaggio pubblicitario.Poco fa ha fatto irruzione nel mio immaginario monastero lo spot di una salsa ketchup, prima ancora un tipo riccioluto sedicente professore universitario sponsorizzava dei buoni pasto aziendali e una sorridente casalinga tesseva le lodi di un aspirapolvere intelligente, quelli tondi che li molli sul pavimento e fanno tutto loro.
Vedete?Ricordo bene cosa volessero vendermi le inserzioni!
Queste continue interruzioni sono davvero moleste, interrompono la magia e spezzano l’emozioni dei Canti. Così, mi è venuto in mente che questa cafonaggine – oggi pacificamente accettata – una volta era ritenuta una forma di inciviltà contro cui valeva la pena insorgere.Mi ricordo lo sfogo di Federico Fellini contro gli spot in mezzo ai film, lo slogan Non si interrompe una storia, non si spezza un’emozione (mi pare lo avesse coniato Walter Veltroni).Mentre scrivo, sto appunto ascoltando questi canti e i loro echi mi proiettano idealmente dentro ampi e ombrosi edifici sacri silenziosamente popolati.Ma ecco che il coro viene interrotto dalla pubblicità di un’automobile girata in una grande città dove tutti sono glamour e la gente vive nell’attesa dell’aperitivo consumato tra le grandi pareti a specchio di immensi grattacieli.
Quando preparo le lezioni per i miei alunni, uso far ascoltare loro grandi classici della poesie interpretati da attori importanti. In quest’ultimo anno ho proposto Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e L’Infinito di Leopardi letti rispettivamente da Carmelo Bene e Vittorio Gassman.Entrambe le recitazioni, su youtube, sono state interrotte da spot.
Mi sono accorto che l’invadenza di queste pubblicità mi appare ogni minuto di più inaccettabile e mi sono convinto che la mia ancorché anacronistica indignazione meritasse queste righe e, forse, la necessità di porsi qualche domanda su ciò che oggi sembra fuori discussione.
Io non voglio dichiarare la guerra alla pubblicità, la pubblicità è utile e ha una sua funzione. Ma ci dovrebbero essere degli ambiti protetti: non puoi interrompere forme di arte così alta per propormi un nuovo modello di assorbente o un miracoloso unguento contro le emorroidi.Quando ero bambino, venuta la sera nella pace dello stazzo dove trascorrevo le estati, mia nonna mi raccontava li foli, leggende tramandate oralmente simili a certi racconti del terrore di Poe.Erano narrazioni cariche di suspence e di pathos, c’era sempre qualche morto ammazzato in maniera truculenta.A nessuno sarebbe mai venuto in mente di interrompere mia nonna per proporle l’acquisto di una saponetta o di uno snack. Sarebbe stato considerato gesto blasfemo, da mercanti nel tempio.
C’è una pagina del mio ultimo libro in cui Libero, il protagonista, si ritrova nella hall di un hotel di Sidney, in attesa di un posto sulla nave che lo porterà poi in Messico.La televisione è accesa e lui, sardo emigrato in Francia, è contento perché trasmettono un film in lingua francese.Per la prima volta nella sua vita, vedendo quel film, Libero assiste ad una storia interrotta dalle rèclame di ogni genere di prodotto industriale. Ne resta indignato e nei telegrafici diari in cui annota il suo giro del mondo in bicicletta ritiene sia doveroso fare cenno a questo malcostume.Era il 1975.Ecco, certe volte mi piacerebbe tornare alla libertà di indignarci di quegli anni.Possibilmente senza essere interrotti da una spot.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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