Uno spettatore distratto che si sporge troppo, una pozzanghera, una rovinosa caduta dalla bicicletta da corsa. L’automezzo del seguito che non fa in tempo a frenare, una gamba incastrata sotto, maciullata, paralizzata. Il fango, la setticemia. Per mesi, per lunghissimi mesi, il giovane ciclista era rimasto immobile nel letto di un ospedale. Una discreta promessa sportiva con speranze di passare professionista vanificate da un terribile incidente in quella gara di ciclocross, allora molto in voga. Sei mesi di ospedale e dodici operazioni per salvare dall’amputazione un arto che pareva scollegato dal resto del corpo. Nel frattempo, il giovane, ormai ex atleta, conobbe in quei lunghi mesi di degenza ospedaliera una piccola ed energica inserviente sarda, razza maurredda. Lei lo rincuorava tenendogli la mano. Fecero il viaggio di nozze in Sardegna, una visita parenti. Lui vide la Sardegna e ne rimase impressionato, estasiato. Così iniziò ad accarezzare l’idea di un trasferimento, da richiedere all’amministrazione postale presso la quale lavorava, nel periodo in cui lo Stato ti mandava in Sardegna per punizione. Lei, la sarda, non era d’accordo. Un posto di lavoro in ospedale, a Niguarda, non si regala a nessuno. Veniva da Carbonia, città dove le miniere chiudevano una dopo l’altra. E se anche il lavoro dell’ospedale era duro, durissimo, e non tutte le suore che comandavano erano comprensive, tutto sommato si trovava bene. Ma Soprattutto lei era inseguita dai ricordi delle miniere, dalle esplosioni, i crolli, le sirene che laceravano improvvisamente l’aria, e dall’immagine delle donne che uscivano da casa spaventate, correndo fuori, verso la miniera, scarmigliate e con i bambini in braccio. Alla fine lui la convinse e, dopo un po’ di tempo, ottenne il trasferimento dall’amministrazione delle poste. Giunsero in un sobborgo del cagliaritano nel novembre del 1970, provenienti da Lodi, una delle cittadine più benestanti del nord Italia. Giunsero a Quartucciu, in uno di quei paesi che l’espansione edilizia cagliaritana aveva inglobato nel suo hinterland, trasformandolo, almeno in parte, in un dormitorio periferico senz’anima. Apparentemente. Il Cagliari di Giggirriva aveva appena vinto lo scudetto, e tutti ne parlavano. C’erano le nuove industrie, l’espansione edilizia lungo gli assi urbanistici periferici e costieri di Cagliari e Sassari, si parlava dei sequestri di persona, del Piano di Rinascita, dell’autonomia e dello sviluppo dell’isola e del mezzogiorno. Ma stava per finire la turbolenta espansione del boom economico, per fare posto agli anni della recessione, della crisi petrolifera, delle lotte sindacali, delle proteste, del terrorismo. L’ex ciclista con famiglia al seguito, nel frattempo cresciuta con tre figli, per prima cosa, fece due gesti concreti di amore per la sua nuova terra d’elezione: l’abbonamento al Cagliari calcio e ai casotti del Poetto. Una cosa mi colpì in quei primi anni di residenza in Sardegna. Una cosa che ho impiegato un po’ di tempo a dargli una spiegazione. Io e mio fratello iniziammo a frequentare le scuole elementari. I bambini, gli altri, i sardi, erano meglio vestiti di noi, avevano giocattoli più costosi, i soldini per le figurine e le biglie. Spesso portavano le merendine a scuola, una chimera per noi. Poi andavamo a giocare a casa loro. Le loro case erano grandi e tutte di proprietà. Noi eravamo gli unici che pagavamo un affitto. I loro genitori avevano tutti un automezzo, a volte anche due, noi no. La maggior parte aveva già il telefono, noi no. Noi che venivamo dalla ricca Lombardia, eravamo tra i bambini meno abbienti, in quel sobborgo cagliaritano che già da allora conviveva con problemi sociali notevoli. Mio padre era un impiegato alle poste, mia madre aveva lavorato fino ad allora con un discreto impiego. Non potevamo certo considerarci “poveri”, ma, rispetto alla grande maggioranza degli altri bambini, avevamo meno possibilità economiche. Quando racconto questo aneddoto, vengo, spesso, guardato di sbieco, con incredulità. Perché in genere la mente umana si fissa su degli stereotipi comodi, dai quali è poi molto faticoso uscire. Nord ricco (e dunque civile), Sud povero (e dunque incivile). Stereotipi comodi e binari. La cultura oppositiva di Levi-Strauss, già di per se spontanea nello strutturalismo umano, è oggi accentuata dal transito immediato delle informazioni dai media all’opinione pubblica. Con due opposizioni si pensa più facilmente e si veicolano meglio le informazioni. Più il transito è veloce, più i media sono efficaci. Tutto ciò contribuisce a creare una rincorsa alla semplificazione, una spirale semplificativa di questioni in realtà obbiettive e complesse. L’aneddoto non sta a significare che la Sardegna fosse, allora come ora, più ricca della Lombarda. Ci mancherebbe. Però ci introduce dentro piani di interpretazione della realtà che spesso le indagini sociologiche e le misurazioni economiche non rilevano. In Sardegna vigevano ancora in quegli anni forti retaggi di una società che Durkheim chiamava di tipo segmentario. Porzioni di società civile che riescono a strutturarsi autonomamente, basandosi, tra le altre cose, su forti legami solidali. In Sardegna, in genere, persiste un forte senso di proprietà con la casa di abitazione, nuragico, oserei dire. In particolare, nel Campidano e in altre zone della Sardegna ancora si usava, e forse si usa ancora, edificare la propria abitazione beneficiando dell’apporto di parenti e di amici, un sistema di reciprocità solidale che consentiva risparmio ed economia. Nuovi appartamenti venivano sopraelevati, con questo sistema, ogniqualvolta vi fosse un nuovo matrimonio. Ecco perché le case erano di proprietà. Ogni anno, invece, la famiglia milanese era costretta, per ragioni igieniche, legate anche alla presenza di bambini piccoli, e psicofisiche, legate al clima e allo stress della vita cittadina, a trascorrere una dispendiosa villeggiatura al mare, per due o tre settimane. Da Milano, Torino e le altre città del nord, colonne di auto si intruppavano nell’Autostrada del Sole e nella altre strade verso sud e verso il mare, in uno dei riti italiani collettivi più parossistici, che ancora, nonostante i richiami alle vacanze intelligenti, resiste, sin dall’epoca dell’esplosione delle utilitarie FIAT per le strade italiane. Inutile dire che Quartucciu dista 5 chilometri dalla spiaggia cittadina del Poetto, che all’epoca non aveva nulla da invidiare agli atolli corallini. Insomma, con i soldi risparmiati dell’affitto, delle vacanze, e con un costo della vita inferiore, i quartucciai si potevano permettere un tenore e una qualità della vita anche superiore ai ricchi lodigiani, nonostante il reddito pro-capite medio fosse inferiore. Certo da allora le cose sono cambiate e la Sardegna, dopo il fallimento delle industrie e il crollo fisiologico dell’edilizia abitativa e costiera, dovuta alla saturazione del mercato, sta attraversando una crisi che dimostra quanti errori siano stati fatti impiegando, in quel modo, i fondi del piano di Rinascita. Però questa esperienza infantile mi ha fatto comprendere che per capire, ancora oggi, la cultura e la società sarda (e non solo sarda, ovviamente), occorre liberarsi di tutti i luoghi comuni, gli stereotipi, i clichè che si stratificano con il tempo e che condizionano le analisi antropologiche comparative.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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