«Io, modesto maestro elementare, dissento da glottologi, filologi e professori universitari. Il dialetto nasce dentro, è lingua dell’intimità, dell’habitat, “coscienza terrosa” di un popolo, sta all’individuo parlante come la radice all’albero; nasce nella zolla, si nutre nell’humus, si fonde nella pianta stessa. È, insomma, l’anima di un popolo». Alla fine degli anni Ottanta ero responsabile delle pagine culturali del mio giornale e per vie che non sto a dire ricevetti le bozze di un libro che Mondadori stava per pubblicare. Circolavano riservatamente in alcune redazioni italiane e altrettanto riservatamente si richiedeva un parere. Se ricordo bene non c’era ancora un titolo definitivo. L’autore era un maestro elementare e il libro era la raccolta di oltre cinquanta componimenti dei suoi alunni di una scuola dell’entroterra napoletano. Cominciai a leggerne svogliatamente qualcuno, poi li lessi tutti in un fiato. Ma quando qualcuno mi telefonò per chiedermi un parere, dissi: “Belli, però il libro non si venderà. E’ il Cuore dei giorni nostri, geniale, ma roba fatta per chi la sa apprezzare. Chi vuoi che spenda soldi per leggere dei temini sgrammaticati?”. Vendette circa due milioni di copie e quel funzionario non mi chiese più pareri. “Io speriamo che me la cavo”, di Marcello D’Orta, morto a sessant’anni nel 2013, è una delle più straordinarie dimostrazioni di due assunti. Il primo e più importante è che io non capisco un cazzo. L’altro è che non è detto che un’operazione raffinata come quella debba necessariamente restare in un ambito ristretto. Ho pensato più volte al successo di quel libro, alla storia del maestro sgarrupato, quando anni dopo sono stato investito insieme alla mia generazione dagli strani ondeggiamenti del pubblico dei social, che ancora stento a capire. Ora che sono più vecchio, però, una cosa sola ho capito: che ti piacciano o no, non sottovalutare mai i gusti e le opinioni popolari. E non meravigliarti quando coincidono con le tue, che in fondo in fondo ritenevi elitarie. E ci hai messo tanto a capirlo, direte voi, e nonostante tu sia un giornalista! Eppure quei componimenti che attraverso occhi innocenti e persino troppo saggi per la loro età raccontavano di contrabbando e prostituzione; quei racconti di bambini che osservavano, anziché giochi e baruffe familiari, camorra e gravidanze non volute; quei compiti in classe che dicevano con sorrisi innocenti e scanzonata allegria di uno stato imbelle e corrotto, quello che gli scolari conoscevano; quei bambini che tra dialettismi ed errori di grammatica dipingevano la loro vita di persone oneste e piene di dignità, in un mondo sporco e malsano; ecco, tutto questo mi avrebbe dovuto fare capire che quello era un futuro bestseller. Anzi, forse per farmelo capire sarebbe dovuto bastare questo pensierino: “La mamma è una cosa seria. Essa si sacrifica da quando noi nasciamo. Essa produce il latte per noi. Quando siamo piccoli produce il latte, perché è un mammifero: per ciò si chiama mamma”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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