«Nel Sistema camorra l’omicidio risulta necessario, è come un versamento in banca, come l’acquisto di una concessionaria, come interrompere un’amicizia. […] Ma uccidere un prete, esterno alle dinamiche di potere, faceva galleggiare la coscienza. » (Roberto Saviano, Gomorra)
Ho riflettuto su quello che ho letto e personalmente scritto in questi giorni. Abbiamo giocato con la memoria ricordando quello che è stato il terrorismo, il ruolo dello potere in quella che fu una vera e propria guerra dichiarata da un gruppo di giovani contro quello che loro stessi chiamavano lo Stato Imperialista delle Multinazionali. Abbiamo anche dichiarato che le parole – ma anche i gesti – sono importanti ed hanno il loro peso specifico. Quella guerra lo Stato – quello Stato – riuscì a vincerla, riuscì a sgominare le brigate rosse e ci si avviò, seppure con qualche ferita di troppo, ad una nuova concezione di Stato. Un’altra guerra che dura ormai da decenni lo Stato – né quello e neppure questo – non l’ha ancora vinta. Ci sono solo alcune battaglie da ricordare e che ci siamo portati a casa ma la vittoria sulla guerra varie mafie è ancora molto lontana. E mentre nel 1994 le brigate rosse si trovavano tutte nel carcere di Rebibbia, all’interno dell’area omogenea voluta fortemente dall’allora Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Nicolò Amato, a Casal di Principe, nella terra dei fuochi, veniva barbaramente ucciso all’età di 36 anni Giuseppe Diana, noto Peppino, figlio di quella terra, prete dal grande impegno civile. Si schierò apertamente contro i “casalesi” la famiglia del boss Francesco Schiavone, detto Sandokan che a vederlo sembra di trovarsi davanti ad un signore quasi distinto. E’, Francesco Schiavone, uno che controlla moltissimi enti locali della città senza piano regolatore di Casal di Principe. E’, Francesco Schiavone, uno che ha capito che occorre utilizzare l’abito buono per fare cose illecite. Don Peppino Diana era un uomo mite ma fortissimo nel denunciare le malvagità del clan. Alle 7.20 del mattino del 19 marzo 1994, Don Peppino è assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari della sua Casa di Principe, mentre si accinge a celebrare la santa messa. Il camorrista lo affronta con crudeltà e gli scarica cinque colpi di pistola che lo uccidono all’istante. Ma non basta. Nel 1994 assistiamo al peggiore tentativo quasi riuscito di manovrare la macchina del fango da parte del potere e a Casal di Principe il potere è rappresentato dai “casalesi”. Tutti bravi nel depistare le indagini, nell’accusare Don Peppino Diana di essere un frequentatore di prostitute, di essere un pedofilo e di nascondere delle armi destinate ad uccidere il procuratore Cordova. In quel periodo un quotidiano, il Corrirere di Caserta pubblicò in prima pagina “Don Diana era un camorrista e e solo dopo pochi giorni “Don Diana a letto con due donne” facendo intendere che l’omicidio era maturato in altri ambienti. Questa è la guerra che non abbiamo ancora vinto, forse perché non l’abbiamo combattuta realmente, forse perché la camorra conosce molto bene il territorio ed è ben inserita al suo interno, non come i brigatisti che vivevano dentro una grandissima bolla ideologica. Ricordare la morte di Aldo Moro e della sua scorta è necessario ma è ancora più necessario per questo Stato e quindi per tutti noi ricordare la morte di Don Peppino Diana, ma è assolutamente necessario che lo Stato – questo Stato – provi a combattere e vincere questa guerra.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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