E niente. Torniamo sempre dalle parti delle lacrime e della rabbia. E dell’impotenza. Avevo provato a pensare ad altro, a dimenticare quella maledetta domenica del 19 luglio 1992, quando con i miei figli – che allora avevano sei anni – passavamo una giornata al mare d’Alghero. Ho provato a dire, quasi sottovoce: “parliamo d’altro, perché bisogna andare avanti”. Poi, seduto dentro la stanza dei ricordi, mi son detto a voce alta: “Ma non abbiamo fatto molti passi dalla strage di via d’Amelio. Non dobbiamo ripartire. Perché non siamo mai partiti”. Questo è il punto maledetto, bastardo e terribile. Noi con la mafia non ci abbiamo ancora fatto i conti. Riusciamo sempre a rimandare, a mitigare, a rassodare un terreno arido e spaventoso. Noi con la mafia non possiamo fare i conti perché non conosciamo i numeri e la cattiveria, la predisposizione al male e la coerenza nell’essere cattivi. Perché bisogna essere davvero perfidi per far saltare un giudice che va a visitare l’anziana madre. Bisogna aver cancellato da anni la propria coscienza per vedere carne umana spezzarsi e volare. Carne giovane, di agenti di polizia. Servitori dello Stato, quello stesso Stato che a volte ha pagato il biglietto e ha organizzato lo spettacolo di un macello inenarrabile. Niente. Torniamo sempre in quei strani luoghi: Capaci e Via d’Amelio. Gironzoliamo tra i ricordi ed i sorrisi stanchi di due uomini di Stato: Giovanni Falconi e Paolo Borsellino e non riusciamo a chiudere i loro volti dentro una cattedrale laica, non riusciamo a costruire un altare che li esalti come esempi. Non ci riusciamo perché nella nostra antica ipocrisia non abbiamo il coraggio di dire che la mafia è distruzione di uomini e storie, lacerazione di coscienze, morte del lavoro onesto, giri di appalti dove tutti provano ad ingozzarsi e far finta che la mafia non esista. Ed invece c’è. Io ci ritorno spesso in quella spiaggia dove il 19 luglio del 1992 ho appreso la notizia. Ricordo lo sguardo dei miei figli che non capirono e che volevano il gelato. Il freddo che camminò dentro la mia vita e l’odore forte di sangue e carne umana che sconquassò la storia. Questo è stato il 19 luglio del 1992. La morte della speranza, l’impossibilità di raccogliere quei pezzi di carne umana e gettarli con rabbia a chi questo paese lo ha acquistato e continua ad acquistarlo, con il silenzio complice di noi tutti.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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