“L’uomo giusto non è pertanto quegli che si prospetta in ipotesi preliminarmente il più idoneo alla copertura di un determinato posto, volta per volta oggetto di concorso, nel quale le qualità professionali vengono commisurate anche alle specificità ambientali, ma è innanzitutto quello scelto con criteri giusti e cioè legittimi”. Con queste parole il 19 gennaio 1988 il CSM scelse per l’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo il Dr. Antonino Meli al posto del Dr. Giovanni Falcone che, dopo quattro anni, sarà ucciso nella famosa e triste strage di Capaci insieme a sua moglie e alla sua scorta. Dentro quelle parole si nasconde tutta l’ipocrisia burocratica del sistema Italia, tutta la furbizia e l’arguzia giuridica da professionisti dei cavilli. Un professore un giorno mi disse che il diritto amministrativo era una materia bellissima, perché malleabile e, soprattutto, modellabile: ”Si può, con lo stesso articolo, costruire il vestito adatto per qualsiasi stagione”. Giovanni Falcone queste cose le sapeva bene e sapeva, da uomo sanguigno alla pari di Paolo Borsellino, che per farlo fuori dalla corsa a capo dell’Ufficio istruzione avrebbero utilizzato mezzi leciti, ma non necessariamente giusti. In quella frase c’è tutta la sfacciataggine di chi doveva assolutamente colpire Falcone con mezzi ritenuti giusti e quindi legittimi, sapendo che così non era. Si è parlato molto dei veleni del tribunale di Palermo, del carattere di Falcone, dell’attentato all’Addaura, del fatto che il successore politico del giudice Antonio Caponnetto doveva essere lui ma si contrappose Antonino Meli perché quel giorno, il 19 gennaio 1988, prevalse non la scelta giusta e legittima, ma “pilatesca”. Questa è la verità che si trova all’interno del verbale di 50 pagine della riunione tenutasi a Roma il 19 gennaio 1988 presieduta dal Vice Presidente Cesare Mirabelli. In realtà a correre per la poltrona di Palermo vi erano anche Giovanni Nasca, Rosario Gino, Marco Antonio Motisi e Giovanni Falcone. La proposta della commissione che conferisce gli uffici direttivi è, da subito a favore di Antonino Meli in quanto egli “coniuga alla maggiore anzianità di ruolo, un quadro professionale apprezzabile, per cui pienamente idoneo” e sottolinea il corposo curriculum di Meli che lo vede “Pubblico Ministero a Varese nel 1951 e fino ad oggi è stato giudice oltremodo laborioso”. A combattere la mafia manderanno un magistrato che dal 1951 ha lavorato come PM a Varese e che è considerato “laborioso” come se gli altri concorrenti fossero, invece, dei lavativi certificati. E Giovanni Falcone? In quel verbale del giudice più esposto contro la mafia si dice che: “Tutte le positive notazioni a favore non possono essere invocate per determinare uno scavalco (sull’anzianità ndr) di sedici anni”. Vecchio, vecchissimo discorso che nella Pubblica Amministrazione è ancora in uso: l’anzianità usata come scalpello per costruire solchi tra il vecchio e il nuovo e dove il vecchio è sempre e comunque garanzia assoluta. Il nuovo, dunque, non riuscirà mai, per come sono costruite le norme, a scalzare l’esperienza maturata con l’età. Ma contro Falcone, quel giorno, c’è anche astio e odio profondo. Si legge, infatti nei verbali che il giudice Falcone non merita quell’incarico perché: “Accentrare il tutto in figure emblematiche pur nobilissime è di certo fuorviante e pericoloso…c’è un distorto protagonismo giudiziario…si trasmoda nel mito”. Il Dott. Letizia nel suo intervento afferma che: “Preferire Falcone significa contravvenire alla legge, in Italia non c’è solo lui a combattere la mafia e ricordo i tanti magistrati che lottano contro il traffico di stupefacenti. Della professionalità poi fa parte la modestia, il miglior segnale del Csm è quello di non scegliere Falcone”. Così avvenne. Non si prestò attenzione alll’avvocato Contri che provò a far ragionare il Consiglio ricordando che: “Falcone è titolare di una esperienza unica non solo in Italia contro la mafia, magistrato eccezionale”. Le parole del professor Brutti non furono utili per il Giudice Falcone: “Forse non ci si è resi conto che bisogna nominare il capo di un ufficio di frontiera, che sia degno successore del giudice Caponnetto, oggi la mafia continua a sfidarci, la risposta è scegliere l’uomo giusto al posto giusto, le norme ci consentono di superare il divario dell’anzianità tra i candidati in virtù di specifica motivata valutazione a favore del candidato meno anziano”. La frase peggiore però, in quelle cinquanta pagina la costruisce il Dott. Tatozzi che prima si dichiara amico di Falcone ma poi afferma che:“Nominare Falcone potrebbe essere interpretata come una sorta di dichiarazione di stato di emergenza degli uffici giudiziari di Palermo”. A leggere queste pagine monta una rabbia sorda, parole incredibili e affermazioni purtroppo inascoltate, come quelle del Giudice Giancarlo Caselli che proverà, rispondendo anche al suo collega Tatozzi, a spiegare l’importanza della lotta alla mafia affermando che: “La mafia non è una semplice emergenza è un problema strutturale italiano, è una realtà quotidiana in molte zone, è un pericolo per la Democrazia, e lo Stato si difende sul versante giudiziario dalla mafia garantendo agli uffici giudiziari la migliore attrezzatura, l’essere astratti nel decidere provoca svuotamento degli uffici di ogni valore, per questo oggi l’ufficio istruzione deve fare un passo in avanti, il candidato indicatoci dalla commissione presenta elementi di rischio, mentre la scelta non è tra Meli e Falcone ma verso un uomo del pool. Mi chiedo come si possa parlare di privilegi per chi ha fatto determinate esperienze per chi stando a Palermo vive in condizioni a tutti note e che rappresentano forte penalizzazione”. Anche il Dott. D’Ambrosio si schiera a favore di Falcone ricordando una frase del Generale Dalla Chiesa”Quelli che sono lasciati soli dallo Stato sono destinati ad essere abbattuti dalla mafia”.
Questo accadde quel giorno, il 19 gennaio del 1988.
Giovanni Falcone fu abbandonato al suo destino e la mafia questo lo comprese bene. Troppo bene.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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