Lo so, ne ho parlato molte volte e qualcuno dirà: “Basta”. Lo metto nel conto. Però il 19 febbraio del 1953 nasceva, a San Giorgio a Cremano, Massimo Troisi che avrebbe compiuto 64 anni. Un ragazzino. Per me Massimo, dopo Eduardo ed insieme a Diego Armando Maradona (Che c’entra Maradona? C’entra, c’entra) è l’espressione più alta e intensa dell’essere napoletano. Un guitto, un apparente stralunato, un autore intelligentissimo, un profondo conoscitore di ciò che Napoli era nell’immaginario collettivo: una stella che passa probabilmente troppo velocemente ma che rimane indelebile come ricordo nel firmamento dell’esistenza. Troisi ha saputo raccontare Napoli perché lui era Napoli. Vorrei ricordare solo alcuni pezzi (e vado a memoria) del suo essere profondamente uomo del Sud: “un napoletano deve per forza emigrare?” oppure, il saper sdrammatizzare sempre e comunque: all’amico che suggeriva: “Meglio un giorno da leone che cento da pecora” seraficamente rispondeva: “Ma non è meglio cinquanta giorni da orsacchiotto?” E che dire della battuta fulminante sulla scelta del nome da dare al bambino? “Massimiliano non va bene, troppa libertà, Ugo troppo represso: meglio Ciro”. Come De André, come Gaber, come Mariangela Melato, solo per citarne alcuni, Massimo è uno che mi manca. Vorrei poter sapere cosa direbbe oggi di tutto questo trambusto, di questo mondo che lui ha lasciato nel 1994 quando ancora da queste parti c’erano ancora le lire. Massimo è la bellezza e l’amore per le cose. Non si improvvisano certe scenette seppure noi continuiamo a vederle come naturali perché lui sapeva rendere tutto naturale. Da quando è morto ho deciso di acquistare una caffettiera da 12 tazzine. Non vorrei che un giorno, venendomi a trovare, mi potesse dire che “se uno è solo non può avere a casa una caffettiera da una tazza singola”. Lo aspetto, per un buon caffè e per rivedere insieme “Non ci resta che piangere” quel piccolo capolavoro costruito con straordinaria poesia. Lo aspetto e quando lui, dal balcone risponderà al monito: “Ricordati che devi morire” con un “Mò me lo scrivo” proverò a suggerirgli: “Massimo, lascia perdere, non scriverlo. Non porta bene”. Io, senza Massimo mi sento un po’ più solo. Non so voi.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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