La fitta sequenza di brutte case – dovunque in Sardegna – ci faranno riflettere quando ci riguarderemo e ci riguarderanno. Sarebbe bene se nelle pause del dibattito sull’Autonomia – e sull’identità(?) – si desse un’occhiata a come ci siamo conciati. Si scoprirebbe che il limite della decenza è ampiamente superato per travestimenti assurdi, come non è accaduto in altre regioni. Aveva scandalizzato un film televisivo, non ricordo quale, che parlava dell’isola con deficit di accortezze storico-antropologiche, del sardo com’è nella caricatura, e con i panni che ci vorrebbero vedere addosso.
Un film è solo un film, in fondo. Ma qui si tratta di vestiti indossati volentieri e difficili da togliersi. È il paradosso della rinuncia all’identità evocato dalle maschere delle Demoiselles di Picasso. Tanto più temibile se la finzione è compiacente (in Sardegna la maschera è una cosa seria, dice di riti preistorici, di paure primordiali da alleviare, di morte e rinascita, ecc). Fra trent’anni l’isola perderà quasi un terzo dei suoi abitanti e le case vuote, non solo nei villaggi dei balocchi, saranno più di quelle odierne, già oltre un quarto del totale. Lasciamole nello sfondo – per una volta – le quantità delle trasformazioni che hanno travolto i paesaggi naturali più preziosi. Per soffermarci sulle forme adottate dalla cangiante città diffusa. Grande parte del paesaggio costruito in Sardegna è rivelatore di una propensione ininterrotta ad assumere il carattere deformante e uniformante della villeggiatura, per piacere ai turisti e assecondare il turista che è in noi (il consumatore al posto dell’abitante, la messinscena al posto delle consuetudini). E’ il trionfo dell’ equivoco vecchio mezzo secolo: i travestimenti della Sardegna costiera (e non solo) sono ormai percepiti come autentici, appartenenti alla sua storia. Invece è un abbaglio collettivo. Un repertorio che si diffonde da decenni, come il passaparola delle ricette di cucina che danno la composizione grossomodo, e tu puoi sperimentare le dosi e aggiungere altri ingredienti. Quello che si vede è il frutto di tentativi che si cumulano casualmente: un mix che rimanda ai primi villaggi di Costa Smeralda, che a loro volta richiamano scorci di Capri o Ischia, a prospettive veneziane, cartoline dalla California, scenografie fiabesche, scriteriati revivals stilistici, il tutto reso in modo iperbolico, fumettistico, caricaturale non si sa bene di cosa. Un grammelot, se fosse una lingua.
E’ un florilegio di successo, una epidemia tentacolare: quelle figure esondano dalle riviere alle campagne, alle nuove espansioni, penetrano nelle parti antiche degli abitati. Una passione compulsiva per la sceneggiata, una disneyzzazione subita e alimentata, che distrae, dà speranze, illude di stare al passo di favolosi redditi. Sovrapponendo vero e falso si realizzano nei vecchi centri alterazioni di tipologie originarie delle quali restano dignitosi esempi: superstiti palazzetti di fine Ottocento e primo Novecento, austeri per la ritrosia – pensate un po’ – ad accogliere i decori eclettici del Modernismo. Come i severi edifici descritti da Salvatore Satta che nel “Giorno del giudizio” immaginava in qualche modo l’epilogo ( “le zitelle erano ben felici di lasciare nei lugubri palazzi il loro titolo di ‘donna’ per abitare le case linde e di cattivo gusto…che già cominciavano a sorgere nella periferia”). Agli interventi più sguaiati, blocchetti in cls e alluminio anodizzato a go go, si sta così sovrapponendo la tendenza – apparentemente innocua e a fin di bene – di camuffare interi brani di paesi, con abbellimenti che fingono il restauro eccitato dai repertori dei villaggi costieri. E pure le vecchie strade si rinnovano invecchiandosi, con altane, balconi e portali che non c’erano, cantonali e cornici distribuiti in modo approssimativo, e intonaci che mimano le malte d’epoca lasciando parti scrostate.
Tutto finto o quasi. Dovunque l’obiettivo è l’effetto rustico che simula gli acciacchi del tempo, con malformazioni che consentono l’impiego di manodopera mediocre. Il vecchio muro sbilenco dilaga anche negli interni, effetto baraccone (il meglio nei bar dapertutto: la sublimazione della pietra incollata e la pittura a spugna definita appunto “spugnato”). Nelle marine più sfigate, in assenza di manutenzione, il tono è quello decadente di scolorite scenografie in disuso, l’atmosfera malinconica di cose che non sono mai state nuove e non potranno invecchiare con dignità. Tutto è dentro questo processo, pure Cala di Volpe (tra le icone più note del turismo degli esordi, tra i modelli più usati) minacciata ogni tanto di finire nel gorgo di un incremento, tra le sdegnate proteste del figlio del suo autore (per realizzare l’ampliamento era stato chiamato, nel 2009, Hart Howerton lo stesso progettista di Disney World, sob!). Una produzione intemperante e disarmante (un consulto di etnologi, semiologi, analisti della moda ecc. ci spiegherebbe, forse). D’altra parte, nel tempo dell’individualismo estremo, la libertà dell’immaginazione non ammette richiami alla coerenza, men che meno all’eleganza. Ogni appello alla buona educazione estetica, alla sobrietà dei comportamenti, rischia di apparire autoritario oltre che snob. Sarà però il caso di rifletterci su questa capitolazione di massa ai modi espressivi della vacanza, che ognuno con il suo giocattolo rimpingua, invadendo il paesaggio di tutti. Nel frattempo rimane ai margini l’architettura che, pure nell’isola, vorrebbe stare al passo con i tempi (gli stili che a suo tempo abbiamo accolto – dobbiamo ammetterlo – erano quelli all’avanguardia in Europa). Oggi la Sardegna sembra rinunciare al confronto con il mondo globale – scivolando dal pop al trash – proprio quando il mondo sarebbe disposto a guardare con interesse alle sue storie vere.
* Questo articolo è stato pubblicato nel 2010 su La Nuova Sardegna e ampliato/revisionato dall’autore.
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