Il 18 febbraio del 1967, a Caldogno, nasceva Roberto Baggio. Dunque, se ancora so far di conto, quello che resta uno tra i più amati calciatori italiani di ogni tempo oggi compie cinquant’anni. È sempre strano, per me persino angosciante, pensare che un uomo che si era abituati a vedere scattare e saltare su un prato verde, tutt’uno con la sua gioventù, possa aver raggiunto quell’età e si prepari alla vecchiaia. Forse è angosciante perché con lui invecchiamo noi, che lo abbiamo applaudito da quest’altro lato dello schermo, nei lampi di genio di una carriera tutta vette e precipizi, vette e precipizi come poche altre. Dopo un infortunio, dopo una lite con un allenatore, dopo una panchina, Baggio estraeva sempre dal suo smisurato talento un goal da urlo, una giocata da costringere all’inchino pure gli avversari. Lo abbiamo applaudito indipendentemente dalla maglia che indossava, perché ha segnato goal memorabili con il Vicenza, la Fiorentina, la Juventus, il Milan, l’Inter, il Bologna e il Brescia, l’ultima squadra della sua carriera, finita nel 2004. Però il goal più bello, tra quelli che ricordo, lo segnò con la maglia della nazionale nei mondiali del ’90, contro la Cecoslovacchia. Prese palla sull’out di sinistra, poi una conversione al centro tutta finte e ricami, quindi quella conclusione che fu un miracolo di balistica, una traiettoria obliqua che gonfiò la rete non si sa come, infilandosi tra i polpacci dei difensori e le mani del portiere. Era giugno e io aspettavo a giorni il mio esame di maturità: quelle esplosione di gioia alleviarono la tensione in vista dell’imminente impegno scolastico. Tra le giocate indimenticabili, come non citare quel goal al Napoli di Maradona, con la maglia della Fiorentina, nel settembre del 1989: un coast to coast da un’area di rigore all’altra, mettendo a sedere tutti gli avversari che gli si fecero incontro, portiere compreso. Baggio fu il campione a metà tra due epoche. Divenne grande quando il cambio di marcia imposto al calcio dal Milan di Sacchi aveva trasformato i giocatori in superman muscolosi e dai polmoni inesauribili, rendendo infernali i ritmi di ogni partita. Baggio, che aveva le ginocchia distrutte da infortuni patiti da giovanissimo, quei ritmi non li poteva reggere, perché non era veloce né un superman: non rincorreva all’indietro l’avversario, rifiatava ad ogni scatto. Per questo, oltreché per un certo temperamento da primadonna, litigò con tutti gli allenatori, da Eriksson a Trapattoni, da Capello a Sacchi, da Lippi ad Ancelotti. Ma la sua classe immensa arrivava dove la corsa non sarebbe stata capace. Certi suoi slalom verso la porta non erano galoppate travolgenti, ma la sua imprevedibilità nei movimenti e la sensibilità di tocco colmavano abbondantemente quel gap atletico. Baggio distillava la sua classe poco alla volta, come un artista cui non si possa e debba metter fretta.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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