Ho sempre pensato che Enzo Ferrari sia stato una persona triste, insoddisfatta dal non trovare risposte al tormento di troppe domande. Quand’ero un ragazzino lessi un libro di Enzo Biagi, il resoconto di un’intervista a Ferrari registrata a Maranello e durata tre giorni. Rimasi ferito da un desiderio espresso dal Grande Vecchio, quando Biagi gli chiese come avrebbe voluto essere ricordato. “Vorrei essere dimenticato”. Era difficile, per me, capire come l’inventore di quei bolidi rossi, veicoli di felicità, potesse essere un uomo mesto, irrisolto, stanco, che nel dissolversi del suo ricordo dalla memoria collettiva vedeva una misericordia. Lo chiamavano ingegnere, ma ingegnere non era: scarsa propensione per i calcoli e pessimo profitto a scuola, ammise lui. Ferrari, nato a Modena il 18 febbraio del 1898, era un uomo dalla grande ambizione, abilissimo negli affari, innamorato delle auto, delle donne e dei piloti coraggiosi. Fu egli stesso un pilota e corse per l’Alfa Romeo, che poi batté quando dall’abitacolo passò alla scrivania di titolare della Scuderia Ferrari, nel dopoguerra. “Fu come aver ucciso mia madre”, commentò quando le sue auto tagliarono il traguardo prima delle Alfa, dimostrando di poter trovare il dolore anche nella gioia più grande. E un dolore inconsolabile fu la morte di Dino, il primogenito stroncato dalla distrofia muscolare nel 1956: Il Drake – così lo chiamavano gli inglesi – destinò alla ricerca su quella malattia risorse ingenti e a Dino intitolò una linea di meravigliosi modelli. Ero un grande appassionato di automobilismo, ogni settimana mi nutrivo di letture di Autosprint, non perdevo un Gran Premio di Formula 1: li seguivo accanto a mio padre, che al terzo giro era già abbandonato sulla poltrona, addormentato, e si faceva riassumere l’andamento della corsa nei rari momenti in cui riprendeva conoscenza. Una volta, però, babbo non si addormentò. Era una domenica dai nonni, in campagna, nel luglio del 1979, e le formula uno si sfidavano a Digione, in Francia. Quel duello tra l’esuberante Renault turbo gialla di René Arnoux e la Ferrari T4 di Gilles Villeneuve resta il momento più appassionante che io ricordi in una corsa automobilistica. Lo seguimmo col fiato sospeso ed io vedevo mio babbo piegare il corpo e destra e sinistra seguendo l’andamento del circuito, come se sulla malconcia Ferrari ci fosse lui. E poi da bambino sognavo di possederla, una Ferrari: mi piaceva la 308 Gtb di Magnum Pi, ma la mia preferita era la 512 BB, con quel motore boxer a 12 cilindri strettamente imparentato con quello installato sulle Formula uno di Maranello di quegli anni. Avere una Ferrari significava essere arrivati, nella vita, così credevo allora. Questo misto di adrenalina, ambizione e ottimismo derivavano in fondo da quel signore che io conobbi già vecchio, sempre con gli occhiali scuri sul naso. Eppure combattivo, nelle conferenze stampa, quando affrontava da leone i giornalisti che gli rimproveravano le lezioni impartite in pista alle sue rosse dai team inglesi, Williams e Mclaren in particolare: “Quelli sono assemblatori, non costruttori: il telaio qua, il motore là, i freni lì. Solo la Ferrari costruisce in fabbrica ogni singolo pezzo delle sue monoposto”. Enzo Ferrari aveva una tale fede nella volontà umana da sostenere che la fortuna non esistesse, trovandola solo una scusa da perdenti. Quando morì lo seppi dalla Gazzetta dello Sport. Era l’agosto del 1988 ma lui era già mancato da qualche giorno: volle che della sua morte il mondo fosse informato a funerale celebrato. Voleva evitare ipocrisie, celebrazioni, retorica. E forse fu il momento in cui lo apprezzai di più.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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