Erano gli anni caldi dell’ascesa fascista. A Torino, città operaia, i fascisti aggredirono un ferroviere, Francesco Prato, che riuscì però a difendersi e a scappare, uccidendo due dei suoi aggressori. Fu il pretesto, tanto atteso, per decapitare la dirigenza dei partiti socialisti e operai della città. “I nostri morti non si piangono, si vendicano. (…) Noi possediamo l’elenco di oltre 3000 nomi di sovversivi. Tra questi ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia. E giustizia è stata fatta. (…) (I cadaveri mancanti) saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nei fossi, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti Torino.”. Il generale Piero Brandimarte, decorato della prima guerra mondiale e poi diventato capo degli squadristi di Torino, accese la miccia. Le squadre fasciste, rinvigorite dopo la marcia di Roma e tutelate dal governo di Mussolini, si gettarono all’inseguimento degli oppositori del regime, menando terrore, distruzione e morte, bruciando e devastando i luoghi di riunione degli operai marxisti e anarchici. Grazie all’intercessione dell’abile diplomatico Generale Mattia DeVecchi, colui che esportò i metodi dello squadrismo fascista come governatore della Somalia, Brandimarte ebbe il via libera dalla Prefettura, pressata peraltro dagli industriali e aristocratici piemontesi, che finalmente potevano confidare nella violenza fascista per tenere a freno i movimenti dei lavoratori. Aristocratici e industriali piemontesi, gli stessi che Gramsci, in quegli anni, prima di finire i suoi giorni in galera, denunciava come i taglieggiatori del popolo sardo. Ma questa volta le vittime furono gli operai torinesi. Il 18 dicembre del 1922, Pietro Ferrero, segretario della Fiom, ossia degli operai metallurgici, fu prelevato dalla sua abitazione, picchiato e torturato a sangue, infine legato per i piedi ad un autocarro e trascinato per mezzo chilometro fino a trasformarsi in una poltiglia sanguinolenta irriconoscibile. L’antifascista Andrea Ghiomo fu ritrovato nel prato di via Pinelli morto, con il cranio fracassato e con centinaia di ferite da arma da taglio in tutto il corpo, esito di un accanimento bestiale e feroce collettivo sulla sua persona. Matteo Tarizzo, antifascista, fu ritrovato in fondo a via Canova, con il cranio sfondato a colpi di clava. Matteo Chiolero, tranviere e militante socialista, fu trucidato a casa sua, davanti alla moglie e alla figlia. Erminio Androne, fuochista delle ferrovie, venne ucciso davanti alla sua abitazione, che in sfregio venne data alla fiamme. La giornata del 18 dicembre si concluse con altri morti e decine di feriti e torturati, ma la strage continuò liberamente il giorno successivo, senza che nessuno intervenisse. Evasio Becchio, giovano operaio comunista, fu prelevato e portato in fondo a corso Bramante, dove fu crivellato a colpi di pistola e di moschetto. Cesare Pochettino e suo cognato Stefano Zurletti vennero portati sull’orlo di un dirupo nelle campagne torinesi e ivi fucilati. Zurletti si finse morto e venne soccorso da un anziano signore che di nascosto aveva assistito alla scena. Ricoverato in ospedale subirà, tuttavia, le angherie degli squadristi che imperversavano liberamente dappertutto, riuscendo però a sopravvivere. Alla fine delle due giornate infernali la strage conterà 14 morti morti e 26 feriti. Nel dopoguerra, il Generale De Vecchi fuggì in Argentina, ma nel 1949 la Cassazione cancellò i reati di cui era accusato nella sua militanza fascista e potè fare rientro in Italia. Brandimarte fu condannato nel 1950 per la strage di Torino a 26 anni e 3 mesi di reclusione, prima ridotti di due terzi, infine cancellati del tutto dalla Cassazione nel 1952 per insufficienza di prove. Insufficienza di prove. “I nostri morti non si piangono, si vendicano”. Le parole feroci del gerarca risuonano come una impenitente confessione, emblema della strafottenza eterna che trapassa i fatti e le epoche. Alla faccia del revisionismo, e di chi sostiene, oggi, quasi una equazione, una parità di onore e di disonore, una livella nella considerazione dei morti, una parificazione dell’orrore e della violenza. Tutti violenti, anche i partigiani. Tutti assassini, tutti eroi, tutti colpevoli, nessun colpevole. Strage di Torino del 1922, 14 morti. Gloria in epoca fascista, e salvacondotto legale in epoca repubblicana e democratica. Il Generale Piero Brandimante visse così tranquillamente il suo dopoguerra, da militare in pensione, dedicandosi al commercio. Morì nel novembre del 1971. Si racconta che un reparto di Bersaglieri, comandato da un ufficiale, al passaggio della bara, gli rese l’onore delle armi attribuibile agli eroi della patria.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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