Uno strano incontro. Un Magistrato indaga su un delitto accaduto nel 1946. Però certe cose non si riescono a capire in un piccolo paese della Sardegna. E allora, dentro un’estate che sta arrivando, il giovane Magistrato comincia a fare domande, per ottenere strane risposte. Siamo nel 1985 e il giallo della Sardegna è sempre inconfondibile. Il comune è sistemato in una piazza esagonale ed è semi nascosto da una massiccia rampa di scale. Una volta, ai tempi del podestà, l’edificio era situato all’inizio del paese. “Questioni logistiche” mi ha detto il segretario comunale, un signore sui trent’anni innamorato della sua voce e della storia del suo comune. Un altro biografo e un altro volume, diverso da quello dei carabinieri e io, per mestiere, devo ascoltare. “Quando Don Antonio Farris capì che Mussolini avrebbe governato per molti anni, decise di spostare il comune all’inizio del paese, proprio dopo il curvone della strada statale che porta a Barinà. Devono subito capire l’importanza delle istituzioni e queste, anche fisicamente, devono essere in trincea. In prima linea. All’inizio del nostro florido paese campeggiava, per chi giungeva da Sassari, per volere di Don Farris, un enorme fascio littorio e una scritta che occupava, in senso orizzontale, tutta la facciata del palazzo comunale: La popolazione di Gosilì è romana e fascista. Per sempre. Era un monito. Per tutti. Anche se non proprio tutti in paese erano romani e fascisti. Ma Don Farris era persona scaltra. Almeno così ho sempre pensato. La posizione del comune all’entrata del paese era strategica per un altro motivo. Lo si capì nel 1945 quando, una mattina di ottobre la Balilla del podestà, carica come un asino, cominciò a sbuffare e contorcersi. All’interno Donna Forica e i suoi due figli e, al volante, un affannato Don Farris che preparava la fuga senza che nessuno potesse né vederlo e né tantomeno bloccarlo. Dopo il 1970, la giunta decise di traslocare il comune al centro del paese, per avvicinarsi ai cittadini che, nel frattempo, erano invecchiati senza una buona dose di ricambio di anime, frutto dell’endemica emigrazione perché tutti partivano e nessuno decideva di tornarci in questo sputo di paese. Ormai la popolazione è ridotta a 796 anime. E’ un paese in agonia. Una scuola elementare multiclasse che, probabilmente chiuderà. Niente scuole medie, neppure un campetto senza erba per giocare a pallone. Non si riesce a trovare ventidue bambini con un’età omogenea per costruire due squadre di calcio. E Don Pistiddda ha abolito la messa domenicale, quella dei bambini. Era completamente inutile. Neppure il vescovo passa da queste parti. Non c’è nessuno da cresimare e i morti se ne vanno tutti con molta discrezione. Per quelli, poi, bastano le omelie di Don Pistidda.” “Qualche omicidio degno dell’omelia del vescovo, di tanto in tanto, accade” dissi, non tanto perché speravo nella risposta rivelatrice, quanto per placare questo pessimistico fiume in piena. “L’ultimo è del 1978. Brutto anno. Un omicidio ricercato caro Dottore – è l’unico che mi chiama Dottore, noto con un certo orgoglio di bruco che si muove e controlla se spuntano piccole alette – “Era la sera del 12 luglio. Appena terminati i mondiali dell’Argentina. Quelli, se lei ricorda, dove Zoff non vide partire i due palloni da lontano e tutti dicevano che era un portiere finito ed è diventato campione del mondo. Insomma, la sera, al bar di Tiu Giuanninu Fele di questo si parlava, di calciatori dal nome nuovo come Cabrini e Paolo Rossi e del nuovo Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, sicuramente, non sarebbe piaciuto al nostro vecchio podestà. Entrò, quasi di scatto, Foriccu Pes, che tutti chiamavano Foriccu piscia funtana. Urlava come un forsennato e masticava tutto ciò che diceva. Si capiva nel suo narrare concitato solo la parola morto e si intuiva dal suo vociare e dal modo con cui roteava le pupille che un morto ammazzato da qualche parte doveva pur esserci. E, proprio all’uscita del paese, vicino al vecchio comune, in una pozza di sangue giaceva Immacolata Berinzè, bellissima ragazza appena ventenne. Il volto sfigurato da una carica di pallettoni. Sembrava appoggiata sul marciapiede, con lo sguardo rivolto verso la strada lontana, la statale per Sassari, aveva la gonna lievemente scostata e le cosce, turgide, immacolate, che creavano una sorta di piccolo e sinuoso arco. Raggomitolata nel sangue con le mani in mezzo ai suoi lunghi capelli. Tutti conoscevano Immacolata e tutti sapevano che se pallottola avesse dovuto, un giorno incontrare il suo corpo ecco, quella pallottola sarebbe partita dal fucile di Rocco Maiale, il vecchio fidanzato…” “Che bei ricordi” dissi bloccando questo novello Omero. “C’è stato un delitto anche nel 1946?” Mi guardò piuttosto seccato. Non era sicuramente d’accordo del mio intervento volto a cambiare totalmente storia. Non era probabilmente abituato a discutere con gli altri o, comunque, frequentava quasi sicuramente persone disposte ad ascoltarlo per troppo tempo. “Non saprei. Non ero nato e non ha avuto dei genitori che parlavano di queste disgrazie.” L’omicidio dentro quest’ isola è sempre una disgrazia, pensai mentre il segretario continuava, con lentezza a costruire la risposta. “C’è un solo modo per saperlo. Controllare il registro dei defunti. Il vecchio ufficiale dell’anagrafe, Tiu Bulliccu Chessa, era un uomo scrupoloso e annotava sempre vicino alla data di nascita la data di morte, il motivo del decesso e l’orario del funerale”. “L’orario del funerale? Che importanza poteva avere per l’anagrafe del comune? “Non saprei con certezza. Era, almeno credo, un vezzo di tiu Chessa anche perché, vicino ad alcuni defunti aggiungeva, con calligrafia fine, anche un piccolo commento: poche persone, molte persone, accompagnato da tutti sino al camposanto, pochi uomini, solo donne anziane. Una sorta di rilievo antropologico”. Tiu Bulliccu Chessa. Antropologo. Sarebbe una bella targa da consegnare a questo comune che è senza fantasia. Le vie sono le solite: Via Roma, via Nazionale, via Sassari, Via Vittorio Emanuele. Non c’è memoria dentro le città. Non c’è neppure il gusto dello scegliere. Dovrebbero vietare vie orribili come Via Fondazione Rockfeller, dove, ad Alghero abita un mio carissimo amico. Che si vergogna. Che senso ha essere così spocchiosamente servi da dover titolare una via ad un miliardario che nessun aiuto ha dato e darà mai al nostro paese? Perché, tra le tanti leggi insulse, non può essere varata un legge che obblighi i comuni a titolare le vie e le piazze alle persone che realmente hanno vissuto dentro quelle vie e quelle piazze e che, in ogni caso, hanno fatto piccole cose per l’umanità, ma infinitamente grandi per il loro paesino? Tiu Bulliccu Chessa. Antropologo. Una bella via per uno che ha amato, a suo modo, Gosilì. “Anche lei, continua ad annotare come il signor Chessa?” “Non è più possibile. Oggi possediamo un piccolo centro meccanografico e non ci sono più gli spazi per scrivere a penna. Ogni paesano ha una targhetta in rilievo che passa dentro una macchina stampatrice. Quando muore, la targhetta viene gettata via e un piccolo timbro annuncia il passaggio: deceduto in data. Nient’altro.” Mentre parlavamo del vecchio modo di far morire definitivamente gli uomini a Gosilì – in senso figurato – il segretario cominciava sfogliare i faldoni diligentemente sistemati in una scaffalatura nella stanzetta dell’archivio. Prese quella del 1946. Cominciò a scorrere sapientemente e lentamente quei fogli sottili e lontani che raccontavano un pezzo di vita trascorsa e quasi dimenticata. “Niente”, disse “Nessun omicidio e, se posso aggiungere, nessun deceduto, né naturale, né artificiale”. “Non lo trova piuttosto strano?” Chiesi con una certa circospezione. “Certo, molto strano” aggiunse, mentre riponeva il falcone 1946 andando incontro – prima con gli occhi e, successivamente, con le mani – verso un altro registro, senza data, che cominciò a consultare. Questa volta in maniera molto più velocemente, costruendo un cammino a ritroso, da destra verso sinistra, come stesse leggendo un libro arabo. “Niente” ripetè, “Nel 1946, in questo paese non è morto nessuno. Ma – ed era un ma gonfio di una certa severità – incredibilmente, in quell’anno non c’è registrata nessuna nascita. Il 1946 a Gosilì non c’è mai stato. Dal primo gennaio al 31 dicembre si registrano senza nessun movimento 1762 cittadini: di cui 1012 donne e 750 uomini.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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