(Portua)
Oggi siamo discesi su Portua, infine. Il guardiano non si è manifestato. Abbiamo provato a guadagnare la spiaggia dalla rada in cui è ormeggiata la nave, ma il forte vento che spazzava da nord tutta Navigandia ci ha respinto più volte, sia a remi che a vela. La piccola scialuppa a vela infatti non segue che andature portanti, riuscendo a risalire di pochissimi gradi il traverso del vento. Così abbiamo dovuto optare per due bordi lunghissimi, allontanandoci da Portua di parecchie miglia e infine ritornandovi, ma sulla costa a ponente. A mio avviso la spiaggia dista dal punto del nostro atterraggio non più di sette miglia. Tuttavia, toccato terra, ogni nostro tentativo di metter piede sulla spiaggia è stato vano. Portua sembra coperta da una cortina di legno e spine, una vegetazione troppo fitta per le nostre lame.
Non ho trovato, nelle porzioni di isola traversate, segni evidenti della presenza umana. Esistono muri di pietra non legata e sentieri ancora non del tutto chiusi. Esistono pietre lungo questi sentieri che fanno pensare a dei cippi, come se un tempo qualcuno avesse provato a misurare e contare le distanze tra i punti dell’isola. Ma tutto sembra avvolto da un silenzio che non si trova altrove e che non concede spazio ad essere umano.
(Il mare interno)
Esiste un punto soltanto, nell’arcipelago, in cui non è visibile, in nessuna direzione, la linea dell’orizzonte sul mare aperto. La sensazione è dunque di trovarsi su un lago di qualche altipiano d’Africa o d’Asia. La terra attorno sembra appunto terra, non sembrano isole. Viceversa gli indigeni, che conoscono tra quelle isole ogni stretto di mare, non sanno immaginare terre che non siano smembrate dall’acqua salsa. Per loro non può esistere terra abbastanza grande che non sia possibile pensare come isola. Fisicamente hanno ragione loro. Spiritualmente non siamo in grado di ammetterlo, ma solo perché i continenti sono isole talmente grandi che non è possibile distinguere con chiarezza il dentro dal fuori.
Le isole di Navigandia invece hanno una dimensione tale che non è possibile non dividere il mondo tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Ed esiste per ogni isola, in Navigandia, almeno un punto del mare in cui sia possibile arrivare a tenerla ferma in un unico sguardo.
(Magda)
Essa ricorda nel piccolo talune grandi città di mare di uguale latitudine: Massalia, Genua, Liburnia, Partenope, Castello. Come queste, essa mescola in modo mirabile mutevolezza e stabilità. A Magda, e nei grandi porti che ho detto, le persone fanno per anni le stesse cose, abitano le stesse case, raccontano le stesse storie e prendono infine un’aria di impassibile armonia col resto del porto e dei vicoli che sul porto muoiono, e delle strade lontane dal mare che il mare non lo hanno visto mai e di cui nondimeno il mare impregna ogni muro, ogni erba tra le pietre, ogni lucertola, ogni ombra, ogni odore e ogni fessura.
Poi vi sono persone che in questi luoghi di mare arrivano per starvi una stagione, due, mezza, e poi spariscono. Alcune di esse ritornano sempre, altrei mai; eppure anche della loro esistenza, del loro essere passate un tempo di là, sono fatti i porti, e in particolare Magda.
Vi sono attorno al paese ruderi sparsi. Sono tanti, e si spingono nella campagna anche a grande distanza dal porto. Sono talmente numerosi da potersi pensare, di Magda, che in altre epoche sia stata una metropoli che il tempo e la campagna hanno lentamente divorato riducendola al villaggio che era in origine. Ma può anche pensarsi, di Magda, che essendo sempre stata un villaggio, a un certo punto della sua storia abbia sognato di diventare metropoli, osservando poi lo schianto lento delle sue periferie contro la durezza impassibile delle sue campagne.
Non so quale delle due immagini sia più vicina al vero. So però che Magda mi è sembrata a volte talmente sognante da darmi l’impressione di essere stata altro da sé, in un passato che si nasconde ormai dietro l’orizzonte. O in un futuro che ancora non si vede, che solo quel modo di sentire dei marinai lascia intuire, come si fa con le tempeste.
(Continua)
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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