Doveva essere una semplice impresa economica. Secondo gli organizzatori, infatti, il concerto di Woodstock doveva essere un affare, un business per fare biglietti. Ma la cosa gli scappò presto di mano. Delle 50 mila persone previste, che già ponevano, nell’America diffidente di quegli anni, notevoli problemi organizzativi e burocratici, iniziarono a prenotarsi quasi 200 mila persone. Alla fine l’ingresso, data la fiumana di persone, fu lasciato libero. Non c’era il modo di convogliare quella folla, quella marea umana in cerca di pace, di amore e di buona musica, dentro i confini ristretti di una gestione organizzata. Fu il trionfo, dunque, della spontaneità, della cultura hippie in particolare e in generale di quella voglia di rivoluzione culturale e di una nuova società che in quegli anni attraversava non solo gli States, ma un po’ tutto il mondo. Una folla pacifica ed entusiasta si assiepò nei versanti della collina che guardava il palco, con dietro lo stagno della purificazione e dei bagni nudisti. Per tre giorni, che poi diventarono quattro, tanti dei più grandi artisti dell’epoca si alternarono sul palco per un concerto memorabile. Sin dalla prima mattina, gli ingorghi di auto e di persone per le strade dello stato di New York sollevarono una grande impressione. Si calcola, alla fine, che ben 500 mila persone, qualcuno sostiene molte di più, anche un milione, assistettero a quello che molti definiscono essere, per la sua carica simbolica e per i tanti grandi artisti presenti, come il più significativo concerto della storia del rock. La stampa d’apparato provò anche a dipingere a tinte fosche quell’evento, senza riuscirci. A parte l’abbondanza di alcool e di sostanze stupefacenti, nessun incidente di rilievo, nonostante la folla accalcata, si rilevò. Fu davvero un meeting dove regnò la pace, l’amore, e la musica. L’idea che poteva nascere un nuovo mondo, fondato sulla pace, in quei giorni divenne qualcosa di più di una semplice utopia di giovani dediti all’hascisc o allo studio della filosofia. L’idea che oltre alle manifestazioni di piazza, talvolta accese e persino violente, ci potesse stare anche una resistenza pacifica, divenne realtà. Erano gli anni della terribile guerra del Vietnam, e i figli della terribile seconda guerra mondiale pensavano che, forse, era giunto il momento di dire basta con le guerre, con lo sfruttamento, con il colonialismo, con la sopraffazione. Si calcola che nel Vietnam siano morte oltre 350 mila persone, con un numero enorme di feriti, sia nel corpo che nell’animo. Penso che la rivoluzione culturale di quegli anni abbia portato un grande progresso per le sorti dell’umanità, o almeno in questa parte occidentale di mondo. Da allora si è diffusa un cultura molto meno classista, più aperta e più liberale. Questi avvenimenti della storia, tuttavia, inducono anche a riflettere sui tempi che passano, sulle lezioni della storia. Quelli che hanno fatto il ’68, che erano a Woodstock, oggi viaggiano verso i 70 anni d’età. In pratica sono loro la classe dirigente del mondo. Ora non so se quella generazione di giovani si possa considerare sconfitta, se cioè i portatori di quei valori, di quegli ideali, una volta anche rinnegata la droga come alternativa al sistema, siano poi entrati a far parte della classe dirigente. Probabilmente una via di mezzo, nel senso che una buona parte dell’establishment di oggi deriva da quella. Fa riflettere, perciò, che la guerra in Iraq, oggi, scatenata per motivi ancora più risibili di quella del Vietnam, abbia ucciso il doppio, forse il triplo delle persone. Fa riflettere che molti di quelli che allora erano giovani, e sognavano un mondo di pace e di amore, siano classe dirigente del mondo di oggi che, sotto il profilo del colonialismo, della guerra e dello sfruttamento, ha fatto pochi passi in avanti. Fa riflettere, a maggior ragione, che i figli e i nipoti di quella generazione, non si accorgano neppure delle guerre che ci sono nel mondo, delle centinaia di migliaia di persone innocenti che muoiono ogni anno per mano occidentale. Fa riflettere tutto ciò. Forse che di droghe, che annebbiano la mente, non c’è solo l’hascisc.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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