E’ diventato il passaggio tra il prima e il dopo. Tra il mio prima e il mio dopo. Prima del sedicimarzomillenocentosettantotto avevo nelle tasche e nell’anima le canzoni di Battisti, di Finardi, di De Gregori, di Bob Dylan. Ero follemente innamorato di Crosby, Stills, Nash & Young; canticchiavo gli Eagles e sognavo la California, leggevo Pasolini e Pavese, ma anche Roland Barthes e Oriana Fallaci. Giocavo con la passione per una sinistra che era un bellissimo sciopero in piazza, gli sguardi di Camilla e i sorrisi di Anna Rita, la voglia di esserci e di stare insieme, in un unico abbraccio tra i sogni e le dolcissime illusioni. Era il mio ultimo anno alle superiori, la gita scolastica programmata per pasqua, la professoressa di matematica che non sopportavo, i baci che m’immaginavo mentre passavano nel giradischi Teac Mr. Tambourine Man e Knockin’ On Heaven’s Door; Rimmel e Lilly, Luci a San Siro e Ho visto anche degli zingari felici. Questa era, più o meno, la vita dentro i miei diciotto anni, quasi diciannove, prima del sedicimarzomillenocentosettantotto. Poi venne quel mattino e nel mattino Via Fani, gli uomini della P2, venne Cossiga ministro dell’interno, Via Montalcini, i comunicati numero uno, due, tre, quattro, cinque, sei, il falso comunicato numero sette, via Gradoli e la seduta spiritica; il rullino che scompare, la tela di un ragno maledetto che lentamente avvolgeva con la sua tela la mia dolcissima adolescenza. Così, in quei cinquantacinque giorni son cresciuto, son diventato uomo, son diventato solo. Ho vissuto nella solitudine figlia della ferocia, ho odiato le brigate rosse, i loro metodi assurdi, quel loro rivolgersi al proletariato, quel loro parlare in nome di un popolo che non avevano, quel voler vomitare sentenze di tribunali mai riconosciuti, quel senso di giustizia scritto con il sangue. Così, per me e per quelli come me, il sedicimarzomillenocentosettantotto è come l’unico sussulto di un giorno senza minuti, senza ore, senza senso. Ricordo sempre quell’assemblea nella palestra della scuola, improvvisata dopo che qualcuno (ma non ricordo chi, mica c’erano i cellulari nelle tasche di noi ragazzi e non c’erano neppure in quelle degli adulti) disse che avevano rapito Aldo Moro. Quell’assemblea sudaticcia e intrisa di urla e di proclami. Quel vice preside democristiano che chiedeva la pena di morte. Io zitto, seduto per terra, con le gambe incrociate ad osservare la gioventù che mi lasciava. Questo mi capita ogni sedicimarzo di ogni anno. Rivivo quel giorno con incredibile intensità. Lo vivo con gli stessi sguardi, gli stessi abbracci, le stesse paure, le stesse mute verità che non sapevamo trovare. E non abbiamo mai trovato. Per me quel giorno è qualcosa che non finisce mai, senza pausa, senza colori, con troppe domande e inutili risposte. Quel giorno, per me, rimarrà per sempre il sedicimarzomillenocentosettantotto. L’unico giorno della mia vita senza musica dove ho compreso che non c’era nessuna iniziazione, nessuna festa, nessun squillo di tromba per passare dall’adolescenza all’adultità. A me il sedicimarzomillenocentosettantotto hanno rubato l’innocenza. E non l’ho più ritrovata.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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