Li avevo lasciati così. Le facce unte nel manifesto del tour di Padania, agosto 2013. Mi avevano lasciata così: in via Sardegna. “Quindi non ci vediamo più, è così?” “Non so, è un periodaccio, non ho tempo” E camminando in via Sardegna senza sapere dove andare c’era la faccia di Manuel. “Non so, è un periodaccio, non ho tempo”, voleva significare che il concerto sarebbe saltato. E poi, “Non si può fare un concerto a Nuoro, dai”. È anche vero che è bellissimo andare ai concerti da soli, disse l’amico consolatore. Sì,ma non dopo che ti scaricano un pomeriggio d’estate in via Sardegna. Così avevo anche smesso di ascoltare Padania e in un’altra serata che sforzandosi un po’ poteva anche finire bene, mi chiesero: “L’hai ascoltato, Padania?” e io che non lo avevo più ascoltato avevo risposto: “Non ancora, cioè, non bene”. “Male…è molto bello”. E anche quella serata era andata a puttane. Un po’ come quell’estate, dove c’era jazz ovunque, solo jazz d’estate in Sardegna, mollatemi con questo jazz, dai. Dopo il reggae tutto l’inverno. Adesso chi se ne frega di quella sera e di quell’estate. Dopo un po’ l’ho potuto dire cos’era Padania. Un disco che non poteva finire completamente lì. E si capisce da qualcosa di questo Folfori o Folfox adesso, il disco di una nuova estate, uscito il 10 giugno. Forse anche Folfiri o Folfox, come il “freddo” Padania, così l’ha definito Manuel Agnelli, è da somministrarsi a poco a poco. Perché quando inizia “Grande”, dopo aver letto di cosa parla – un figlio che chiede al padre un patto impossibile da firmare, quello di non morire- è giusto andarci piano.
Resta un po’ a giocare con me a non sentire più Avevamo un patto io e te e l’hai tradito tu Perché io diventassi Grande
PS: Per l’estate 2016 i nostri hanno scelto Cagliari. Superfluo dire che stavolta sarò là, e che è in programma intervista.
Folfiri o Folfox: il disco ️Lasciar trascorrere quattro anni fra un disco e l’altro senza cedere alla paura di perdere contatto con la “scena” è solitamente indice di avvenuta maturità. Non che prima non vi fosse, intendiamoci; solamente, ora, sono loro a dettare la linea. Gli Afterhours non inseguono niente e nessuno.
Mi è sempre sembrato che la fantomatica “scena” italiana, con la sua sciocca necessità di tributare lo scettro di best-band-ever ai dimenticabili Verdena, sia stata sempre poco propensa a fare i conti con gli Afterhours. Sarebbe bene iniziasse farlo seriamente, d’ora in poi: se ne gioverebbe, qualora esistesse.
FoF è un disco potente, che colloca il combo guidato da Manuel Agnelli al centro della scena musicale italiana – e non solo! – di diritto. Immaginatevi un gigantesco magnete, in grado di catalizzare e redistribuire una miriade di stili ed influenze filtrate da un indiscusso talento; questa è l’immagine degli Afterhours che oggi mi viene restituita da FoF.
Il resto è un disco senza concessioni, che si tiene insieme alla stregua di un blocco monolitico, nonostante le variazioni fra un brano e l’altro o addirittura dentro lo stesso brano che danno l’idea di una – apparente – disomogeneità compositiva e stilistica. Niente di più falso. Un grande merito di tutto ciò va dato sicuramente al drumming circolare e claustrofobico del nuovo entrato Fabio Rondanini, ma sarebbe una grave ingiustizia ridurre tutto a questo dato.
Si potrebbe parlare all’infinito dei dettagli: la capacità di auto-stravolgere l’innata portata cantautorale di Manuel – operazione consequenziale al suo punto di vista sul cantautorato italiano, definito con le dovute precisazioni “pestilenziale” in una intervista di qualche giorno fa – resa manifesta dalla totale assenza di rime nel cantato e nella metrica anarchica dei versi. Oppure la brutalità dei divertissement dei quali sono disseminate le 18 tracce del disco: sentire al proposito l’interludio della titletrack, la delirante San Miguel o l’intera Cetuximab, accartocciata fra cambi di tempo e stralunati eccessi noise.
A questo punto ci sarebbe da decretare il brano preferito: io propenderei per Fa Male Solo La Prima Volta, oppure per Qualche Tipo Di Grandezza, ma solo perché mi paiono in grado di condensare tutto lo spirito del quale è pervasa l’opera. Ma, si sa, questi sono giudizi prettamente soggettivi e il disco va metabolizzato, possibilmente ascoltandolo di filato con i brani in rigoroso ordine.
Io sto facendo così e mi accorgo di una cosa: FoF è un disco che ti porta dentro la sofferenza, ti mastica e ti risputa purificato. L’operazione di Manuel e soci è chiara eppure torbida, allo stesso tempo: fino ad oggi, probabilmente, ha sofferto lui. Ora tocca a noi. Buon – si fa per dire – ascolto!
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