C’è quel siparietto – divenuto un classico – che avrò visto decine di volte ed ogni volta è diverso. C’è quel suo stupirsi, quel suo sorriso che sorriso non è, quel suo voler essere a tutti i costi attore e finisce, invece, per essere un genio. Perché bisogna saperle mischiare le parole e costruire storie come quelle di Massimo Troisi che davanti al predicatore oscurantista nel film “Non ci resta che piangere” che gli ripeteva più volte: Ricordati che devi morire! Lui, con i gesti da attore consumato, muovendo appena le dita e costruendo una faccia adatta all’occorrenza rispondeva: “Sì, sì… Mo’ me lo segno.”
Massimo Troisi è una delle mie icone. E’ la Napoli che amo, il sud che ci accompagna da una vita, è la battuta sarcastica e la solitudine più dolce. Massimo Troisi rappresenta la gioia di vivere, di scommetterci sempre, di accontentarsi. Così, quando l’amico Lello Arena in “scusate il ritardo” abbandonato dalla fidanzata chiede ripetutamente: “E’ meglio un giorno da leone o una da pecora?” la risposta di Troisi rasenta l’assoluta perfezione: “Facciamo cinquanta da orsacchiotto e non ne parliamo più”. Massimo Troisi moriva il 4 giugno del 1994 all’età di 41 anni che nella smorfia napoletana ha il significato di “coltello”. La sua morte, per me è stata come una pugnalata. Non ci ho creduto per giorni e, ripensandoci, non ci credo neppure oggi che sono passati ventidue anni. Massimo Troisi ha rappresentato la bellezza e la freschezza delle frasi, il guizzo che tu non riuscirai mai ad avere, quello che, comunque ha sempre la battuta pronta, giusta, definitiva. Raccontava storie minimaliste, si divertiva a scolpire piccoli personaggi, timidi, imprecisi, mai iracondi, sempre disposti a trovare qualsiasi soluzione, pur di stare al mondo. Gli chiesero, una volta, se le sue storie nascevano dalla strada, dall’osservare la sua Napoli, teatro naturale della commedia italiana. Anche in questo caso aveva la frase giusta, bella, invidiabile: “C’è chi sostiene che per raccontare belle storie basta guardarsi attorno. Io non ci credo, perché se così fosse i vigili urbani sarebbero tutti Ingmar Bergman.” Ricomincio da tre è stato il suo magnifico film d’esordio dove le parole sono il perno di tutto, dove Gaetano, il personaggio da lui interpretato, è la vitalità mediterranea pura, cristallina: “Quando c’è l’amore c’è tutto”, gli dicono e lui, serafico, risponde: “No ti sbagli, chella è ‘a salute.” Troisi è quello che vorresti essere e non sei mai riuscito ad interpretare, il tuo magnifico compagno di classe, quello che non ricomincia mai da zero, ma almeno da tre, posto che qualcosa, nella vita l’ha ottenuta. Troisi è la verità che si nasconde tra gli scudi della paura, è la voglia di raccontarla e non riuscire a farlo. Cos’è l’amore, gli chiesero. E lui: “L’amore è tutto quello che sta prima e quello e che sta dopo. Magari bisognerebbe tenere più in considerazione il durante.” Poi la smorfia, i titoli dei film come “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” e, ancora, quella frase eterea, fulminea, vera, terribile e magnifica: “Io, guarda, non è che son contrario al matrimonio, (…) Io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro. Troppo diversi, capisci?” Massimo Troisi era così, non credeva alle favole, credeva fortemente alla vita. Diceva: “L’amore non è: e vissero per sempre felici e contenti. L’amore è: e vissero per sempre.” Massimo Troisi, morto il 4 giugno del 1994 per me (e non solo per me) vivrà per sempre. con la sua belissima risposta alla domanda “ricordati che devi morire”: Mo’ me lo segno.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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