La nuvola della mosche oscurava il cielo. I primi giornalisti che giunsero poche ore dopo sul luogo del massacro di civili, vecchi, donne e bambini, nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, alla periferia di Beirut, ricordano con orrore la nuvola gigantesca di mosche attratte dall’enorme quantità di carne in via di putrefazione, sotto il sole rovente. Ricomporre quei cadaveri non fu facile, così come non è facile, allo scrivente, di questi tempi, riprendere in mano una storia che ha lasciato sul terreno centinaia, o forse, addirittura, alcune migliaia di morti. Lo scrivente riprende in mano questo orrore, perché crede che è utile spiegare come sia l’odio, e non questa o quella confessione religiosa, che lo provoca. Un’esecuzione degli abitanti di civili palestinesi inermi, da parte delle falangi dei cristiani maroniti libanesi, con l’assenso dell’esercito israeliano filo-occidentale che non ha impedito la strage ed anzi, secondo diversi osservatori, l’ha favorita chiudendo come topi in gabbia quella povera gente. Occorre molto stomaco per leggere i resoconti dei coraggiosi giornalisti giunti sul luogo. Non è facile leggere le storie che quei morti raccontano, le loro ultime ore di vita. Le donne ritrovate con il vestito sollevato e le gambe aperte, sventrate; i ragazzini messi in fila e uccisi con una pallottola in faccia, i giovani massacrati mentre provano a difendersi, i neonati uccisi e gettati per strada, i vecchi decapitati, i bambini sgozzati, i corpi straziati dai mitra e dalle sciabolate. Ciascuno di quei mille, duemila o tremila corpi racconta la sua storia, o quella parte di storia più importante della sua vita: gli ultimi minuti, gli ultimi secondi, mentre fuggono dalla morte, o la guardano in faccia mentre arriva. Il pregresso del fatto è piuttosto complicato: il Libano, ormai da anni, era coinvolto nella guerra civile tra israeliani e palestinesi, frutto di quella sciagurata decisione che vide gli inglesi, nel dopoguerra, disfarsi dei propri possedimenti promettendo ai sionisti, che potremo definire gli “estremisti” israeliani, la Palestina con i palestinesi ancora dentro. Neppure l’Onu riuscì mai a imporre la pace in una terra dove ormai l’odio, e anche gli interessi dell’occidente, in particolare degli USA, in una area del mondo strategica, avevano ormai preso il sopravvento. I palestinesi, in fuga dai coloni israeliani, si erano riversati, a centinaia di migliaia, nei paesi confinanti, in particolare in Giordania e nel Libano. Nel Libano la presenza di armati palestinesi, che si organizzavano per il contrattacco sotto la bandiera dell’Olp, accentuò le divisioni tra cristiani maroniti e musulmani sciiti, da sempre in lite per il controllo del paese, già di per sé articolato in zone eterogenee sotto il profilo etnico e religioso. Negli anni ’70, il Libano sprofondò in una delle più terribili guerre civili che si ricordino. La prima strage avvenne nel 1976, quando i cristiano maroniti fecero irruzione in un quartiere di Beirut controllato dall’Olp e dagli sciiti uccidendo oltre mille persone. La reazione dell’Olp arrivò subito, con l’attacco alla città cristiana di Damur. Altre centinaia di morti. E così via. Eccetera eccetera, si potrebbe dire, se non fosse che quel termine, eccetera, male si addice alle stragi e alle carneficine. Ma la strage di Sabra e Chatila, oltre al fatto che si trattava di civili inermi, colpisce anche per le modalità con cui sono avvenute, per il tradimento di chi doveva controllare e per gli inganni e la vigliaccheria, in particolare dei vertici dell’esercito israeliano, con la quale si è favorita la strage. Israele, per controllare le controffensive palestinesi che partivano dalla frontiera del Libano, lo invase e ottenne il controllo, con il suo potente esercito, della parte meridionale del paese. La situazione precipitò nel 1982, con scontri sempre più accesi tra le fazioni, in un gioco di continua ricomposizione delle alleanze in campo. Gli israeliani ormai assediavano la capitale Beirut e la Siria era già pronta ad interferire e a prendersi una fetta del paese. Il 19 agosto fu firmato un accordo tra le parti in causa, sotto l’egida americana, che l’evacuazione dei civili palestinesi sarebbe avvenuta nel rispetto delle garanzie civili. Arafat, il leader dell’Olp palestinese, forse subodorando l’inganno, preoccupato per la sorte dei suoi connazionali in Libano, chiese l’invio di una forza di pace; la quale giunse presto con 2000 soldati statunitensi, francesi e italiani, che si sarebbero trattenuti fino al 21 settembre. Rassicurato sulla sorte dei civili palestinesi, Arafat lasciò il Libano con i suoi 15 mila guerriglieri. I palestinesi, fiduciosi, uscirono dai quartieri di Beirut, dove erano rintanati, convinti che le garanzie internazionali per proteggerli erano più che sufficienti. Si sbagliarono. Successivamente, il governo israeliano con l’ineffabile Sharon a capo della difesa, prese a lamentare la presenza di guerriglieri palestinesi tra i profughi evacuati. Un pretesto, evidentemente. Sharon invase, intanto, Beirut ovest contro ogni accordo, approfittando anche della confusione seguente all’assassinio del presidente libanese Gemayel. Mentre l’esercito israeliano circondava il campo profughi palestinese, le forze specializzate di pace americane decisero, stranamente, di ritirarsi, seguite, qualche giorno dopo, inevitabilmente, dalle forze italiane e francesi, mentre le falangi cristiane si organizzavano insieme alle forze israeliane che restarono lì, nei punti di avvistamento, come in attesa di uno spettacolo. Alle ore 18 del 16 settembre del 1982, i guerriglieri cristiani entrarono, contro ogni patto e ogni accordo scritto, dentro i due campi di profughi palestinesi. Il massacro durò per ore ed ore, fino alla mattina del 18 settembre, senza che nessuno intervenisse. I civili palestinesi furono massacrati tutti, senza pietà, dalle falangi dei cristiano maroniti. La strage, nonostante le varie commissioni di inchiesta internazionali, israeliane e libanesi, restò impunita.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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