Una delle pagine più buie della storia militare americana è il massacro di Mỹ Lai, avvenuto in Vietnam esattamente 49 anni fa, il 16 marzo 1968, in un villaggio occupato principalmente da donne, bambini e anziani. Il tenente William Calley, per rappresaglia contro una precedente azione dei Vietcong, era entrato nel villaggio con le sue truppe e aveva fatto massacrare 347 civili – tra cui alcuni neonati.
Per l’immaginario di molti, America significa “guerra”. L’idea è difficile da smontare. D’altra parte gli Stati Uniti hanno partecipato, più o meno direttamente, alla maggior parte dei conflitti scoppiati dopo il 1945 e investono più di qualunque altro paese in armamenti e missioni all’estero. Eppure, proprio la società statunitense mostra spesso degli anticorpi di civiltà, da cui la Vecchia Europa avrebbe qualcosa da imparare.
Se noi oggi sappiamo di quel massacro, infatti, lo dobbiamo agli stessi soldati americani. Già nei mesi successivi alla strage alcuni militari iniziarono a segnalare le atrocità a cui avevano assistito, in particolare quelle perpetrate contro la popolazione civile. Una di queste segnalazioni riguardava proprio i fatti di My Lai. La svolta avvenne quando l’opinione pubblica scoprì l’accaduto, grazie all’inchiesta di un reporter freelance, Seymour Hersh. Decisive furono le immagini delle vittime, orrendamente mutilate dalla furia dei soldati, che l’opinione pubblica poté conoscere grazie a quella inchiesta.
Il processo si aprì e, nel giro di tre anni dal massacro, William Calley venne condannato all’ergastolo. Se la cavò grazie a un atto di clemenza del Presidente Nixon, che commutò la pena in arresti domiciliari, definitivamente revocati pochi anni dopo.
Grazie al coraggio civile di chi denunciò, si venne a sapere anche del coraggio militare di chi, a quella strage, si oppose. Durante il massacro infatti, un elicottero statunitense in ricognizione, era atterrato nel villaggio facendo da scudo ai superstiti vietnamiti. Hugh Thompson, il pilota, e due soldati che erano nel suo equipaggio – Lawrence Colburn e Glenn Andreotta –avevano intimato ai comandanti delle truppe a terra di fermare le ostilità, minacciandoli di aprire il fuoco se non avessero interrotto la carneficina.
Negli stessi anni in cui si formava quella che, rinunciando al pudore, potrei chiamare la mia coscienza civile, circolavano parecchi film e documentari sulla Guerra in Vietnam. Ce n’era per tutti i gusti e l’offerta spaziava da Rambo a Full Metal Jacket. La pellicola che più di ogni altra mi vede ancora nei panni del debitore, però, è Platoon, il capolavoro di Oliver Stone. Proprio in Platoon, scritto e diretto per raccontare la reale esperienza di guerra del regista, si parla a un certo punto di un sergente malvagio, di una rappresaglia contro un villaggio di civili, di un sergente umano che tenta di contrapporsi e viene ucciso dal compagno per timore di venir denunciato. Verso la fine del film, il protagonista, facendo rientro a casa, si lascia andare a una serie di riflessioni sulla guerra che ha appena visto e vissuto, e ci dice: «Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi».
“La prima vittima della guerra è la verità”, scriveva nel 1917 il senatore americano Hiram Johnson. La locandina di Platoon, parafrasando, ammoniva: “La prima vittima della guerra è l’innocenza”.
La storia di Mỹ Lai, ci suggerisce che a volte non è così.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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