Nella notte tra il 14 e il 15 agosto del 1977, lo Stato italiano permette l’evasione dall’ospedale militare del Celio del colonnello della Gestapo e criminale di guerra nazista Herbert Kappler, condannato nel 1948 per essere stato il primo responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, avendo materialmente compilato l’elenco dei 335 romani poi mandati a morire per rappresaglia all’attentato partigiano di via Rasella.
Una vicenda più tragica che comica, da inquadrare nella limitata autonomia politica dell’Italia, mai chiarita completamente ma i cui dettagli divennero più nitidi con passare degli anni, nonostante l’omertà dei diretti responsabili, i loro cambi di versione, i tentativi di depistaggio e la cancellazione di prove decisive. Tra queste, anche la sparizione di alcune delle lettere scritte durante la sua prigionia da Aldo Moro, quelle in cui il presidente della Democrazia cristiana faceva riferimento alla vicenda Kappler e alle pressioni da lui ricevute per una evasione pilotata dal gerarca nazista.
Anneliese Wenger, che aveva sposato il detenuto Kappler nel 1972, non liberò il colonnello dall’ospedale del Celio chiudendolo in una valigia e calandolo a terra dal terzo piano con corde da alpinismo, la versione fornita il giorno dopo da un desolato ministro dell’Interno Vito Lattanzio. No, Anneliese Wenger e il figlio di prime nozze Eckehard Walther vennero messi in condizione di portarsi via Kappler, malato terminale di cancro, grazie al sostegno operativo del servizio segreto “Anello” e del suo principale animatore, il militare sotto copertura Adalberto Titta, personaggio la cui ombra appare in molti dei misteri di Stato dal dopoguerra in poi.
“L’Anello” non era un servizio segreto ufficiale, ma un gruppo di agenti segreti clandestino, legato ai vertici politici da rapporti verbali, sulle cui azioni nessuna prova scritta è rimasta, se non nelle memorie di chi vi ha avuto a che fare direttamente. Gente incaricata di fare il lavoro sporco senza lasciare tracce, in altre parole.
La sorveglianza dei carabinieri in servizio all’ospedale, quella notte del 14 agosto 1977, venne allentata, consentendo una comoda uscita del nazista dalla porta principale dell’ospedale. Kappler restò nascosto a Roma per qualche ora, poi venne portato via in auto da Anneliese, da Eckehard e da Titta. Durante la fuga poté persino essere visitato a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, dal famoso urologo Giovanni Pedroni e, infine, condotto a Soldau, in Germania, dove morì qualche mese dopo, nel febbraio del 1978. Solo la mattina dopo, una suora capì che quel fagotto sotto le lenzuola non era il colonnello Kappler, ma un fantoccio infilato nel letto per ingannare eventuali controlli superficiali. L’Italia viene a sapere della notizia con un’edizione straordinaria del Tg1 condotta da Bruno Vespa. Ovviamente, la clamorosa evasione provoca indignazione e polemiche e finisce su tutta la stampa mondiale. Subito si diffondono voci di una evasione “agevolata”, dacché l’anno prima il ministro della Difesa Forlani aveva proposto la sospensione della pena e la restituzione del detenuto alla Germania, date le sue precarie condizioni di salute, proposta ritirata per le vibranti proteste di piazza. Quelle pagine di storia, del resto, erano ferite troppo fresche perché le si potesse cancellare con un condono, magari appellandosi a quell’amnistia Togliatti che nell’immediato dopoguerra aveva restituito la libertà a molti nomi di spicco dell’Italia fascista. Tra questi ultimi anche quell’Adalberto Titta, ex generale dell’aeronautica fascista, passato indenne al nuovo corso democratico senza aver mai abiurato al suo passato.
Kappler non era solo il responsabile della strage delle Ardeatine, ma da sagace poliziotto contribuì a localizzare l’albergo di Campo Imperatore dove era nascosto Benito Mussolini, consentendo poi il prelievo del duce e il suo trasporto in Germania. Fu inoltre l’esecutore dei rastrellamenti di ebrei, poi mandati nei campi di concentramento, dopo che questi erano stati costretti con la forza a cedere tutto il loro oro alla forza di occupazione nazista. Kappler si consegnò agli inglesi subito dopo la Liberazione. Venne condannato al carcere a vita, che significò la sua reclusione per trent’anni nella fortezza di Gaeta, prima del trasferimento al Celio dopo che, nel 1976, gli venne diagnosticato il cancro al colon.
Per tutto questo tempo, spiegò la sua condotta asserendo di essersi limitato ad eseguire ordini superiori. “La banalità del male”, come poi Hannah Arendt avrebbe raffigurato questo disciplinato attenersi alle disposizioni da parte di solerti burocrati. Era vero che Kappler aveva eseguito degli ordini, ma non poteva bastare a scagionarlo dalle infamanti accuse, né a spiegare il perché le vittime delle Fosse Ardeatine siano state 335 e non 330, se la macabra proporzione di dieci a uno con l’attentato di via Rasella fosse stata rispettata.
Il servizio segreto Anello, ovviamente, non agì di propria iniziativa, ma quasi sicuramente innescato da alti vertici istituzionali. L’Italia, in quel momento, era in una posizione di grave debolezza, sia perché l’occidente tutto osteggiava la politica del compromesso storico avviata da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, sia perché le dissestate finanze statali avevano portato alla richiesta di un prestito alla Germania. La liberazione di Kappler fu forse la contropartita a questo prestito, concordato tra i governi di Giulio Andreotti e del cancelliere Helmut Schmidt.
Una decina di anni dopo i fatti lo dichiarò pubblicamente, in un’intervista, il generale della Folgore Ambrogio Viviani, senza che nessun esponente politico si azzardasse a smentirlo. Passò un altro decennio prima che arrivassero le prime eloquenti ammissioni dallo stesso Arnaldo Forlani: sì, era stata un’evasione “di Stato”.
Una ricostruzione minuziosa ed interessante di questa rocambolesca appare in un capitolo del libro “L’anello della Repubblica”, scritto nel 2007 dalla giornalista Stefania Limiti per l’editore Chiarelettere. Quello che difficilmente può essere raffigurato con i toni di un’inchiesta giornalistica è l’amore incondizionato di una donna, Anneliese Wenger, che a quel criminale di guerra conosciuto per corrispondenza aveva deciso di dedicarsi completamente. Esaudendo a suo rischio e pericolo il desiderio di morire in terra amica espresso da un uomo ormai condannato, dalla giustizia e dalla malattia.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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