Ci sono sconfitte che, per come sono maturate, finiscono per essere assimilate, nel ricordo, ad una vittoria memorabile. Uno di questi casi è certamente la cosiddetta “Battaglia di Highbury,” che oppose le due nazionali di calcio più forti dell’epoca, l’Italia che aveva appena vinto il Campionato del Mondo, e l’Inghilterra dei maestri, degli inventori del calcio. Una partita che divenne famosa per via della retorica bellica dell’epoca, che trasformava, spesso, eventi sportivi in battaglie patriottiche. Tuttavia, al netto della retorica dell’epoca, fu davvero una partita giocata con grande ardore da ambo le parti. Gli inglesi, sdegnosamente, si tenevano lontano dalle competizioni internazionali, perché, secondo loro, troppo superiori. Loro, gli inventori del calcio, mica si potevano confrontare con gli apprendisti. Tuttavia, quella volta fecero una eccezione. Del resto sarebbe bastato battere, giocando in casa, la nazionale campione del mondo, per dimostrare la loro supremazia mondiale. Pozzo, il mitico allenatore italiano, sapeva che gli inglesi avrebbero preparato la “sfida del secolo” in condizioni atmosferiche a loro ideali, nella bolgia dello stadio londinese, dalla quale nessuna squadra nazionale era uscita neppure lontanamente alla pari dei maestri. Una trappola, insomma. Ma alla fine, gli italiani accettarono la sfida nella fredda tana inglese. E difatti le cose si misero subito bene per gli inglesi. Prima un calcio di rigore, per fortuna parato dal portiere azzurro Ceresoli, poi, nei primi minuti di gioco, un duro contrasto (il famoso gioco maschio inglese) che ruppe il piede a Monti, il centrocampista fonte del gioco della squadra allenata dal mitico Pozzo, che rimase finché possibile in campo (all’epoca non erano previste sostituzioni). Gli italiani, dapprima, non si resero conto delle condizioni precarie del compagno, che pur di restare in campo non disse nulla, e fu proprio a causa di un suo mancato controllo della palla che gli inglesi segnarono la prima marcatura. Quando Pozzo si accorse della gravità dell’infortunio, costrinse il giocatore negli spogliatoi, visitato da un medico scozzese, che diagnosticò la frattura dell’alluce. L’Italia, disorientata dall’assenza del compagno, nella nebbia londinese, subì il dilagare degli inglesi, che segnarono a ripetizione ben tre gol nei primi 12 minuti. Per l’Italia si prospettava una disfatta senza precedenti. Per la squadra del grande Stanley Matthews, la dimostrazione che, senza ombra di dubbio, i maestri erano ancora loro. A quel punto, negli spogliatoi, il capitano Ferraris, che era alla fine della sua carriera, suonò la carica. Pozzo sistemò astutamente il centrocampo orfano di Monti, e gli italiani iniziarono a macinare gioco. Compresero che il tempo dei convenevoli era finito, e iniziarono a giocare adeguandosi alla situazione. Gioco maschio all’inglese? E sia. Botte da orbi, a quanto si dice, sportivamente parlando, a limite del regolamento. A farne le spese, stavolta, il fuoriclasse inglese Brook, che restò in campo per tutto il secondo tempo con un braccio rotto, oltre ad altri giocatori malconci. Ma quelli erano tempi che quando ci si faceva male, non ci si rotolava a terra per mezz’ora. Si stava in campo, stoicamente, che le sostituzioni non esistevano. Mettimi un fazzoletto in bocca per non urlare dal dolore, implorò Monti per tornare in campo. Il grande attaccante Meazza, colui che nella classifica di gol segnati con la nazionale italiana è secondo solo a Riva, accorciò le distanze, segnando su assist di Orsi. Poi Ferraris tirò una punizione che Meazza deviò in rete con una potente incornata. A quel punto gli inglesi ebbero paura di una clamorosa beffa, e iniziarono a disunirsi. Gli azzurri, galvanizzati, si gettarono in avanti alla disperata, schiacciando l’Inghilterra nella propria area. Le cronache dell’epoca parlano di una vera e propria battaglia sportiva, giocata con ardore da ambo le parti, e c’è da credere che quegli uomini, così lontani dagli agi e dalle mollezze moderne, abbiano dato tutto in campo, e abbiano sputato sangue per la propria maglia. Gli italiani attaccarono a testa bassa, sul finire della partita, alla ricerca del clamoroso pareggio, sfiorandolo con Guaita e Ferraris. All’ultimo minuto, Meazza riuscì a saltare il portiere, trovandosi con la porta vuota. Il pubblico inglese osservò tremante la scena, il pallone calciato da posizione defilata che c’entrava in pieno la traversa. La rivincita della disfida con gli inglesi, ormai orfani, almeno in parte, della loro proverbiale altezzosità, avvenne 39 anni dopo, nello stesso giorno, nel tempio storico del calcio, a Wembley, negato ai “poveracci” azzurri all’epoca. Qualche mese prima l’Italia aveva sconfitto nettamente, in casa, gli inglesi, che così si ritrovarono con il dente avvelenato ad attaccare subito furiosamente. Nel pre-partita la stampa inglese aveva definito gli azzurri “camerieri”, con riferimento a Chinaglia, figlio di un emigrato che viveva in Inghilterra. A quattro minuti dalla fine, fu proprio Chinaglia, manco a farlo apposta, a involarsi sulla fascia sinistra e sparare una botta terribile che il portiere Shilton respingeva, ma proprio sui piedi di Capello. Tap-in e gol. L’Inghilterra si avviò così verso il suo definitivo declino calcistico. Il mondiale casalingo del ’66 fu il primo e ultimo vinto dall’Inghilterra. Per l’Italia “messicana” vice-campione del mondo dei Riva, Rivera, Facchetti e tanti altri grandi campioni fu, tuttavia, una vittoria che forse illuse quei giocatori ormai scarichi, e lì portò alla sconfitta dei mondiali del ’74.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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