Noi la facciamo facile quando gioiamo davanti alle vittorie di Nibali, di Aru e prima ancora di Pantani, Moser, Saronni, Panizza, Gimondi, Binda, Motta, Coppi e Bartali – per restare in tema di campioni italiani – ma non è semplice per niente. Perché il ciclismo è la somma di tutte le fatiche del mondo e, insieme a loro, anche di tutte le bellezze. Dispiace dover aggiungere qualche schifezza dovuta al doping, a qualche nefandezza umana che, purtroppo, non ci abbandona neppure nello sport. Il 14 aprile 1900 nasceva a Parigi l’Unione ciclistica internazionale e attualmente governa su qualsiasi specialità che prevede una bicicletta. In questi anni, tra le migliaia di strade che i ciclisti hanno percorso, ci sono state salite, discese, lunghi e rocamboleschi ultimi chilometri e milioni di giri di pista. L’adrenalina ha macinato vette, curve maledette, scontri e disfide epocali. Il ciclismo su strada, in Italia, è un compendio di metafore secondo solo al calcio. E’ sempre stato uno sport amato da tutti, si dovrebbe dire “popolare” e non populista; la bicicletta è stata la protagonista durante la resistenza perché era lei a trasportare i messaggi che le varie staffette facevano arrivare ai partigiani. La biciclettà è libertà, è sentirsi unici ma vicini alla propria squadra. E’ fatica, sudore, sputi in faccia e piccole scorrettezze. Ma è anche figlia della lealtà, dell’amicizia, del dover e voler stare insieme. E’ il primo mezzo di locomozione dei ragazzini. E’ stato il mio primo grande regalo. Ha rappresentato e rappresenta il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. La biciletta ha i colori della vita e li sa miscelare tutti, molto bene. E’ stata la leggiadria di Coppi, la determinazione di Bartali, la signorilità di Gimondi, la forza e la scaltrezza di Saronni, è stata la rabbia e l’urlo infinito di Pantani, la sorpresa di Aru, solo per ricordare qualcuno dei nostri idoli. Abbiamo cominciato a rincorrerci con le biciclette fin da ragazzini. Siamo stati tutti questi campioni e abbiamo riso, pianto, imprecato vicino a loro. E’ bello pensare – parafrasando De André – che dove finiscono i nostri piedi debbano in qualche modo esserci i pedali di una bicicletta pronta ad accompagnarci verso l’orizzonte ancora da scoprire.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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