Leonarda Cianciulli nota come la saponificatrice di Correggio. La donna che “ha trasformato in sapone i cadaveri di tre donne e che con il sangue delle vittime ha preparato deliziosi dolcetti”. Questo sappiamo di lei dal suo processo in poi. Eppure una minuziosa ricostruzione fatta dagli autori del libro “Leonarda Cianciulli. La saponificatrice” ribalta ogni cosa: in realtà non è mai riuscita a realizzare in maniera corretta il procedimento per tali trasformazioni chimiche. I delitti comunque ci sono stati, sia chiaro. In più, fatto inquietante, cadono sull’adorato figlio Peppuccio i sospetti di una attiva complicità nell’uccisione delle tre donne.
Fino alla revisione fatta da Fabio Sanvitale in collaborazione con il criminologo professor Vincenzo Mastronardi, di Leonarda Cianciulli si sa praticamente ciò che lei ha voluto si sapesse. Passa un’infanzia molto difficile e forse anche un po’ inventata. Non si riesce a stabilire cosa sia vero e cosa no di quello che racconta nel suo memoriale, 800 pagine scritte nel manicomio di Aversa, dove starà in attesa del processo.
Vivono a Correggio al terzo piano del civico 11 in via Cavour, i Pansardi-Cianciulli. Famiglia composta dal marito Raffaele Pansardi e dai quattro figli Giuseppe (Peppuccio l’adorato primogenito “Siamo due corpi e un’anima sola” diceva di lui Leonarda), Bernardo, Biagio e Norma. E i fantasmi di 13 altri figli morti. In casa erano presenti anche le domestiche: Ardilia Diacci prima e Nella Barigazzi, poi. Due giovanissime domestiche nonché testimoni importanti. In particolare la Barigazzi, seppur con un ritardo di 63 anni, rivelò nuovi importanti retroscena. Ardilia invece, forse a causa di ciò che vide, fu internata in manicomio l’anno stesso in cui Leonarda Cianciulli venne arrestata, marzo 1941.
Tre delitti tra il dicembre del 1939 e il novembre del 1940. Lo schema era sempre lo stesso. Tre donne Faustina Setti, Francesca Soavi, Virginia Cacioppo. Tre donne facoltose e sole a cui la Nardina, come veniva chiamata, prospetta nuove vite e nuovi amori. Lei organizza tutto, loro devono solo portare i soldi necessari per organizzare tutto. Devono però mantenere il segreto e presentarsi, quando lei le chiamerà, al civico 11 di via Cavour. Spiegherà loro come fare per partire con destinazione “nuova vita”.
Fanno parte dello schema anche l’allontanamento da casa delle domestiche con una scusa qualsiasi, per il tempo necessario a uccidere le donne e nasconderle momentaneamente nella “stanza oscura” quella stanza rigorosamente chiusa a chiave dove ufficialmente si conservavano frutta e verdura grazie alle temperature più basse rispetto agli altri ambienti. Temperatura ideale anche per conservare cadaveri per non più di due giorni. Ultimo e fondamentale tassello dello schema era l’alibi di Giuseppe. Mentre gli altri figli avevano degli alibi reali, uno a scuola, l’altro in caserma e la terza troppo piccola, Giuseppe, il discreto, educato, umile, studioso figlio, aveva degli alibi un po’ “forzati” e dopo cinque anni, quando verrà fatto il processo, spunteranno fuori molto ben conservati (esempio il tagliando del prestito di un libro che dimostrava la sua presenza nella biblioteca di Reggio Emilia).
In realtà, rivedendo gli atti del processo, le deposizioni e rintracciando la domestica Nella Barigazzi, viene fuori che Peppuccio era parte attiva, se non durante l’assassinio perlomeno durante la distruzione e occultamento dei poveri resti. A spostare il calderone ci voleva una certa forza. In quel calderone, Nardina ha cercato di saponificare ma le mancavano le nozioni riguardanti il giusto procedimento (soda caustica nell’acqua bollente o come racconta lei acqua bollente nella soda?) o le giuste proporzioni tra soda e acqua, infine come spiega Armando Palmegiani esperto della Scena del Crimine, non basta far bollire un cadavere fatto a pezzi per ottenere sapone. Si deve, in maniera scientifica, separare i muscoli dalle parti grasse. Allora come si erano disfatti dei cadaveri dopo averli fatti a pezzi?
Si era creduto senza approfondire che in effetti fossero diventati sapone e dolciumi. Perché lasciamo fare che gli strumenti dell’epoca non potevano agevolare (ad esempio rivelare tracce di sangue ben lavato dalla stanza, non esisteva il Luminol), però si credette alla versione di quella donna che con una furbizia senza eguali giocò la carta della pazzia.
“Una cartomante predisse i miei anni di manicomio – racconterà allo psichiatra Filippo Saporito durante il periodo nel manicomio di Aversa – aggiungendo che i miei figli maschi sarebbero tutti morti in guerra. Solo una cosa poteva salvarli, il sacrificio di altre vite umane. Ecco perché ho ucciso. E ho ucciso appena arrivò la cartolina-precetto del mio secondogenito e fu proprio a lui, a Bernardo che feci mangiare dei dolci fatti col sangue della Setti”
Tutta una montatura per evitare la fucilazione. Nel luglio del 1946 fu condannata a trent’anni più tre anni almeno di cure psichiatriche da “scontare” prima della galera. Leonarda accoglie il verdetto con indifferenza mentre esulta con manifestazioni chiassose alla lettura dell’assoluzione del suo Peppuccio. Si riconobbe sì il movente economico ma la Cianciulli riuscì nell’intento di attirare su di sé tutte le attenzioni e i sospetti in modo che su quel figlio nonostante fosse sotto processo, non si intraprendessero ulteriori accertamenti. Così Giuseppe fu libero di trasferirsi con la famiglia a Genova, dove si sposò e lavorò come insegnante. Libero di nascondere quelle 100mila Lire, ottenute dall’uccisione di tre donne che si erano affidate a Nardina per ricostruirsi una vita. Libero perché la domestica rivelò solo dopo 63 anni e non durante il processo, di quella volta in cui incuriosita da quella valigia 70x30x15 che Peppuccio portava con sé nei suoi viaggi di lavoro a Milano, quella valigia troppo pesante quando usciva e completamente leggera quando tornava, quella volta Nella la aprì e il sangue che impregnava la stoffa, spiegava in parte che fine avessero fatto le tre vittime di casa Pansardi-Cianciulli.
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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