Il 13 ottobre del 1990 finiva l’interminabile guerra civile del Libano, iniziata nel 1975. La follia del tutti contro tutti causò circa 150 mila morti e la pressoché totale distruzione del Paese, vittima più della sua strategica posizione geografica che dei contrasti interni tra i Falangisti cristiano-maroniti e la componente musulmana, ingrossata dal massiccio affluire di palestinesi. Israeliani, siriani e Hezbollah iraniani si gettarono in fasi successive nella mischia di un conflitto civile di violenza cieca, del quale tutti ricordano la strage dei profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila, nel 1982, ma non gli altri stermini avvenuti a partire dal 1975, ora a danno della componente musulmana, ora a scapito di quella cristiana. Tra le stragi di quegli anni a Beirut, anche gli attentati contro i contingenti americano e francese, che lasciarono sul terreno quasi trecento cadaveri. Anche la pace del 13 ottobre 1990 fu, in realtà, conseguenza di un atto di guerra: l’attacco aereo dei siriani e della resistenza interna libanese contro le forze del capo del governo Michel Aoun, indisponibile ad accettare le prospettive di unità nazionale già raggiunte l’anno prima, ma costretto alla fuga dall’offensiva degli alleati. Questi scenari di guerra nel Libano, quand’ero ragazzo, occupavano sempre uno spazio del telegiornale. A scuola, poi, ci dicevano che il Libano era “La Svizzera del Mediterraneo”, per spiegarci come la devastazione della guerra avesse ridotto ad un cumulo di macerie uno Stato così opulento. Il Libano che ricordo io è quello di Rafiq Hariri. Nato a Sidone e poi vissuto in Arabia Saudita, questo signore accumulò negli affari una fortuna tale che negli anni novanta lo portò ad entrare nel club dei cento uomini più ricchi del mondo, prima di diventare capo del Governo del suo Paese nel 1992. E proprio da quell’anno, e per tante stagioni seguenti. mi capitò di averci a che fare. Lavoravo nella vigilanza della Costa Smeralda e spesso mi mandavano a fare servizio su uno yacht attraccato al molo vecchio. Lo yacht si chiamava Nara e, accanto, ce n’erano altri due, il Narana ed il Narina. Questa era la flotta della famiglia Hariri, che si tratteneva in Costa Smeralda per diverse settimane. Avevano anche una villa, a Pantogia, che a fine anni ottanta balzò alle cronache per un conflitto a fuoco tra i vigilantes del Consorzio e un misterioso intruso che, si disse poi, risultò essere invischiato con oscure manovre dei servizi segreti francesi Il vecchio Rafiq me lo ricordo uscire sul ponte del Nara per richiamare all’ordine uno dei figli che, attorniato dagli uomini della sicurezza, calava su Porto Cervo sul far della sera, vestito in maniera intollerabilmente eccentrica per essere il rampollo di una famiglia così famosa. E mi ricordo pure lo sfarzo di quella barca, perché quando il traffico dei curiosi sul molo era cessato salivamo a bordo. Ci era permesso di trafficare nelle cucine e servirci di quel che volevamo, era dunque normale banchettare con i colleghi approfittando dei ricchi buffet. Nella mia testa di ragazzo però sentivo stridere fragorosamente le immagini di un Paese distrutto, che tante volte avevo visto in televisione, con le lunghe vacanze dorate dell’uomo che quel Paese martoriato doveva rappresentare. Ero molto giovane e non lo sapevo accettare. Hariri venne assassinato nel febbraio del 2005, ucciso da un’autobomba a Beirut. Ero in ferie in montagna ed il giornale per il quale lavoravo mi chiese di scrivere un coccodrillo, con mezzi di fortuna, per raccontare principalmente il legame con la Sardegna della vittima. Picchiai sulla tastiera tremila battute, con un filo di commozione. Perché anche se non sapevo davvero chi fosse quell’uomo dilaniato dalla bomba, aveva in qualche modo fatto parte della mia vita
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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