E io me lo ricordo bene che non lo staccavo quel naso dal finestrino quando, andando a trovare i nonni a Cagliari, passavo in macchina insieme ai miei genitori davanti all’ex manicomio Villa Clara. Forse non avevo nemmeno 10 anni e la vista di quegli uomini che vagavano per la strada, alcuni in pigiama, mi terrorizzava e allo stesso tempo mi affascinava. Li guardavo, sentendomi protetta e al sicuro nell’abitacolo della macchina, fino a quando allontanandomi diventavano puntini invisibili. Erano i diversi. Erano quelli che dovevano stare rinchiusi. Erano da sottrarre alla vista della società.
Solo crescendo avrei capito che i manicomi erano intelaiature più vicine a un vero e proprio carcere che non a strutture finalizzate alla cura e che nel tempo si erano riempite non soltanto di malati psichiatrici, ma soprattutto di persone sole, povere, emarginate, tossicodipendenti, alcolisti, bambini non desiderati o malformati.
Villa Clara, per restare nel perimetro della nostra isola, aveva una capienza di max 500 persone, eppure arrivò ad ospitare fino a 1800 pazienti. Ogni nuovo ingresso era soggetto alla visita preliminare del medico e poi a un isolamento lungo due settimane, con degenza forzata a letto garantita da cinghie di contenimento. Il comportamento del paziente, durante questo periodo, ne decretava il destino: se calmo e remissivo veniva dichiarato mentalmente sano e quindi dimesso; viceversa un atteggiamento ostile e oppositivo rivelava disturbi psichiatrici e, pertanto, se ne disponeva il ricovero.
Insomma, cadere nella trappola del manicomio era cosa abbastanza facile; difficile era uscirne.
Lì dentro venivano rinchiusi tutti gli scarti della popolazione, ovvero quelli che la società emarginava per propria convenienza. Ghettizzati e affidati all’istituzione manicomiale che, dietro un’apparenza medico-scientifica, nascondeva la sua reale natura: brutale, costrittiva e discriminante. Non si occupavano della cura, bensì della custodia del malato del quale si era sancita la pericolosità. I trattamenti spaziavano dalle purghe ai clisteri fino bagni gelati, ma anche le terapie da shock insulinico ed elettroshock. Non terapie, ma torture per attuare un controllo sociale della devianza.
È proprio in questo contesto, con ancora vivi i fermenti del ’68, che il giovane psichiatra Franco Basaglia guarda con sconcerto le pratiche in uso all’interno del manicomio di Gorizia, le camicie di forza, le scariche elettriche e prova a scardinare quelle violenze, spacciate per trattamenti, dando origine a un modello di Comunità Teraupetica. E proprio lì a Gorizia inizia la sua rivoluzione, dove il manicomio viene trasformato radicalmente tramite l’abolizione di qualsiasi tipo di cura o contenimento e, soprattutto, l’apertura dei cancelli in modo che i pazienti ridiventino esseri umani e non più malati o diversi. Ben presto Basaglia sente la necessità di ampliare la portata del cambiamento che non doveva restare confinato all’interno degli istituti ma abbracciare interamente la politica della salute in Italia.
Una gestazione lunga, anche ostacolata da ampie fasce di tessuto politico e sociale, che finalmente il 13 maggio del 1978 sfocia in una legge quadro: la 180 impone la chiusura dei manicomi e regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.
Una legge senz’altro imperfetta che forse non aveva programmato scrupolosamente gli effetti della chiusura, delegando le Regioni, e aveva prodotto discrepanze nell’attuazione e lentezze di applicazione, vista anche la trasformazione culturale di ampia portata.
Ma, pur con tutte le sue criticità, la legge Basaglia ha restituito la dignità ai pazienti psichiatrici che loro malgrado sono l’espressione di una contraddizione sociale e medica.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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