An der Sowjetfront: Eine Mauleselkolonne der Italiener wird zur Tränke geführt. PK-Aufnahme: Kriegsberichter Lachmann "Fr" "Fr.OKW" Juli 1942
Trovo, in data 13 luglio 1950, una rassicurante comunicazione del governo italiano sui diritti riconosciuti ai prigionieri di guerra italiani trattenuti in Russia. Potranno ricevere dalle loro famiglie cartoline su appositi moduli, viveri e vestiario ma non carte da gioco, un massimo di 150 rubli per volta.
Ma, accidenti, nel 1950 la guerra era finita da cinque anni, come diavolo è possibile che qualche reduce dell’Armir stesse ancora nei lager sovietici?
Vado a cercare e mi corre in aiuto la monumentale opera di censimento della storica Maria Teresa Giusti, che ha pubblicato diversi saggi su quel che accadde ai soldati italiani dopo la disastrosa spedizione al seguito dell’Operazione Barbarossa.
Riemergono i racconti dell’orrore degli atti di cannibalismo cui furono costretti molti prigionieri, atti indotti dalle autorità russe per ridurre il numero dei prigionieri stessi e alleggerire il costo della detenzione.
Riemerge quella abominevole comunicazione di Togliatti al membro del Comintern Bianco, nella quale il leader comunista spiega che tutto sommato non sarebbe stato un male se qualche italiano fosse morto in Russia, vista l’ubriacatura popolare per il fascismo.
Però su coloro che sono rimasti nelle prigioni russe dopo la fine della guerra non si trova molto.
Maria Teresa Giusti spiega che sull’argomento era calato il veto dello stesso Togliatti, preoccupato dalle nefaste conseguenze di immagine per il comunismo nel momento in cui i reduci avessero raccontato il loro calvario.
Però poi riesco a sapere che tra il 1950 e il 1954 una trentina di ufficiali italiani vennero rimpatriati e ritirate le accuse di crimini di guerra loro attribuiti.
Vado in cerca di testimonianze su questo assurdo calvario, sugli anni di vita rubati a questa gente mandata al macello. E trovo, sul Gazzettino veneto, questa lettera datata novembre 2014. L’ha scritta la figlia di uno di questi rimpatriati e io la riporto integralmente, rispondendo anche alla sua supplica di non dimenticare.
Ho letto l’articolo di ieri dedicato alla storia dei soldati italiani prigionieri in Russia e vorrei aggiungere il mio particolare caso. Mio padre, Aldo, “rimpatriò” (era quello il termine che si usava e lo uso ancora) dall’Urss con uno dei due ultimi contingenti (30 persone in tutto) i primi mesi del 1954, cioè 5 anni dopo gli accordi tra l’Italia e Mosca. Andammo a prenderlo al Brennero – io avevo 11 anni, lui era partito, imbarcato, era nato al Lido di Venezia, quando avevo 4 mesi – e me lo ricordo con un enorme cappotto con addosso la stella rossa cucita, era in condizioni indicibili. Aveva 39 anni, allora, e mia madre 31. Irriconoscibile per quasi tutti (e io avevo di fronte una persona mai vista), era stato nel “campo 1614”. Raccontò, successivamente che altri italiani erano ancora detenuti nei campi di lavoro.
Voglio dire questo perché fu anche per la tenacia di mia madre, che non volle mai crederlo morto, che il sistema italiano continuò a cercarlo. Noi, finita la guerra, per anni ricevemmo la pensione perché il ministero non riteneva mio padre vivente. Mia madre (abitavamo ad Imperia) si interessò anche col ministro degli esteri Paolo Emilio Taviani. Alla fine scoprirono lui e gli altri trenta e li riportarono a casa. Ma ci vollero anni di cocciutaggine di mia madre per arrivare a quella conclusione; che per molti altri commilitoni di mio padre, purtroppo non ci fu.
Vorrei solo che questo non si dimenticasse mai, che il nostro Paese sappia come quella storia sia ancora incarnata nel dolore di chi come me, a 73 anni, non riesce a cancellare un istante di quegli anni di dolore, solitudine e abbandoni.
Loredana Riccò
Mestre
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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