L’aquila vola alta. Ecco che parte in picchiata, artiglia un grande serpente, e con battiti d’ali potenti riprende quota. Gli aztechi, partiti dall’arido deserto del nord in cerca di terre migliori, guardavano increduli la scena descritta nell’antica profezia. “Quando scorgerete un’aquila che mangia un serpente posata sopra una pianta di fico d’india, lì fonderete la nuova città.” La gente vide l’aquila, con il serpente che si contorceva nel suo becco adunco, dirigersi nell’isola al centro del lago, posarsi sopra un fico d’india. Correva l’anno, per noi cristiani, del 1325. L’isola fu scelta, dunque, per la nuova città, difesa naturalmente dal lago e perciò inespugnabile. O quasi. Quando Fernando Cortes giunse a Tenochtitlàn, nel novembre del 1519, restò senza fiato. Aveva sentito parlare di questa incredibile città, ma a vederla non credette ai suoi occhi. In Europa solo Napoli, Parigi e Costantinopoli, all’epoca, gareggiavano in grandezza con lei. Ma era soprattutto quel suo galleggiare in mezzo all’articolato lago, con quel sistema di canali percorribili in canoa, che la rendeva unica e particolarmente efficiente, collegata alla terraferma da quattro ponti in legno, facilmente smontabili in caso di pericolo. Si stima che nel 1519 Tenochtitlàn avesse circa 250 mila abitanti, ed era la capitale dell’impero Azteco. Chissà se è vero quello che dice la leggenda, che Montezuma scambiò Cortes per la reincarnazione di un Dio, del serpente piumato Quetzacoatl. Chissà se è vero. Quello che è storicamente vero, è che Montezuma accolse Cortes, lo straniero, con tutti gli onori. Tuttavia Cortes si sostituì a lui nel governo della città, imprigionandolo, e imponendo il cristianesimo. Lo scontro con la popolazione era inevitabile. Il 13 agosto del 1521, dopo una serie di complicate vicende belliche, Cortes partì alla conquista della città, nel frattempo decimata dal vaiolo portata da uno schiavo proveniente dall’Africa. Un tragico destino di tormenti e schiavitù unì, così, la vecchia Africa al nuovo continente americano. Grazie ai cavalli, alle migliori armi, e all’indebolimento provocato dalle malattie importate dagli europei, con l’aiuto di una popolazione rivale, gli spagnoli vinsero la battaglia finale, uccidendo non solo i soldati, ma anche donne e bambini, e infine radendo al suolo completamente la città. Oggi, sulle rovine di Tenochtitlàn, sorge l’attuale capitale del Mexico, Città del Mexico. Una enorme, immensa città, una delle conurbazioni in assoluto più grandi della terra, che arriva fino a 20 milioni di abitanti. Il lago è stato quasi interamente prosciugato, e sopra la città resta sospesa perennemente una cappa di inquinamento atmosferico. Una città meticcia, dove il sangue dei conquistadores, con il tempo, si è mescolato con quello degli indigeni. Nelle stesso sangue convivono, così, gli spiriti dei carnefici con quello delle vittime. Dell’antica città azteca, grazie agli scavi iniziati negli anni ’70, emergono meravigliose le rovine del passato, le case, le strade, i canali, i palazzi, le piramidi. Nel palazzo del governo sventola la bandiera tricolore del Mexico. Al centro uno stemma che raffigura un’aquila, con un serpente nel becco, posata su un fico d’india.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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