Ieri sera mi sono rifugiato in cantina e ho visto la partita dell’Atalanta, sul divano, assieme a mio figlio. Ci sono stati un sacco di gol, il confronto è stato divertente e per un paio d’ore abbiamo pensato ad altro. Certo, ogni tanto il vuoto acustico dello stadio vuoto e il tonfo sordo prodotto dall’impatto tra piede e pallone ci ricordava l’incubo nel quale siamo sprofondati. Ero uno di quelli convinti che il calcio si dovesse fermare. Che non avesse senso continuare uno spettacolo sportivo in questo tetro scenario da guerra biologica, anche perché ogni partita significa spostamenti di decine di persone con conseguente rischio di contagio. Penso sempre sia così, ma non posso più dire di esserne fermamente convinto. È successo che due giorni fa ho letto un pezzo di Fabrizio Bocca su Repubblica, anch’egli convinto che occorra dire basta. Alla fine del pezzo, il quotidiano online ha predisposto un sondaggio. I lettori potevano votare per dichiarare se fossero favorevoli o contrari alla sospensione del campionato. I tre quarti del pubblico ha chiesto che il calcio si fermi. Quasi un plebiscito. Però poi, alla fine del pezzo, c’era uno spazio per i commenti. E di questi commenti me ne è rimasto impresso uno. Cerco di riassumerne il succo, perché nell’infinità della rete non riesco più a trovarlo. “Perché un calciatore che guadagna un milione di euro al mese deve fermarsi e io, che al mese guadagno 1200 euro, no?”. Non spiegava, il lettore, se fosse un operario, un manovale, un commesso in un supermercato o cos’altro facesse. Sono stato tentato di rispondergli che questo Paese va avanti per i precari da 1200 euro al mese, molto più che per i miliardari del pallone. Sarebbe stata una risposta forse esatta nel merito, ma scontata e senza molto senso. Perché sono convinto che il signore da 1200 euro al mese lo sa perfettamente di essere più essenziale di un calciatore, per la vita di una comunità civile.
Però poi me lo sono immaginato, questo signore appassionato di calcio, che lavora ogni giorno, magari a contatto col pubblico, rischiando oggi molto più del solito. Me lo sono raffigurato quando la sera sprofonda sul divano, col desiderio di pensare a qualcosa di più leggero, foss’anche una semplice partita di calcio. Sentirsi togliere anche questo svago sarebbe un’ulteriore privazione, in questo clima da apocalisse. In questo momento abbiamo anche bisogno di un pallone. Per questo non so più cosa sia giusto o no.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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