Dovete amarla la velocità per comprendere la pazzia e la bellezza. Dovete capire quanto misura il vento e come lo puoi affrontare. Decidere lo scatto, quello definitivo, quello che ti trasporta verso l’impossibile. Bisogna dosarsi di pazienza per capire che duecento metri sono troppo pochi per capire e tantissimi per sorridere. Ed urlare. Si corre perché si è soli, perché occorre dimostrare al piccolo mondo che si è in grado di fare l’impresa, di riuscire a partire dal profondo sud, dai rumori sudici di fango e rabbia per camminare sulle piste di atletica dove la polvere sparisce e dove esistono solo nuove paure. Quella di non farcela, di rimanere per sempre una piccola comparsa nell’universo della velocità. Quella di arrivare con un decimo di secondo di ritardo dal primo che significa non arrivare affatto. La velocità è crudele. Lo sai quando ti metti sui blocchi di partenza e aspetti quel rumore che per il battito del tuo cuore troppo forte rischi di non sentire. E parti con la consapevolezza di non arrivare mai o di arrivare troppo tardi. Un decimo di secondo dopo il primo. E macini quegli attimi, quelle mani tese che paiono pistoni di un’automobile. Si muovono in maniera perfetta, lineare. Si muovono per spostare il vento. Poi la curva. L’unica curva che nei duecento metri appare. Non siamo in un circuito dove puoi decidere quando e come sorpassare. Da queste parti non ne hai il tempo. E se hai cuore e rabbia e ferocia e amore e dolcezza e passione e un briciolo di fortuna quella curva diventa tua. Tutti si allineano e solo in quel precio momento conti i centimetri che ti distanziano dagli altri. A volte sono pochi, a volte sono metri. Non ti giri, non ne hai il tempo. Te a giochi insieme a tutto il sud che urla sguaiato e indolenzito da quei duecento metri che sembrano non finire mai. Quando arrivi tenti di capire cosa è accaduto, se la velocità ti è stata amica, se quei centimetri li hai usati bene. E guardi quel cartellone nero che scrive un numero: diciannove secondi e 72 centesimi. Era il 12 settembre 1979 quando Pietro Mennea stabilì un record mondiale che durò sino al 1996. Nessuno riuscì ad incontrare il vento come lui. Nessuno comprese, per anni, come utilizzare le scarpe e il cuore e la rabbia giusta per essere qualche millesimo più veloce. Pietro Mennea. Il colore forte di un sud che fece l’impresa, che prese tra le mani la velocità e l’abbracciò. Si scoprì, con gli anni, che non bastava tutto questo. Si scoprì la meticolosità dell’uomo, la serietà dell’atleta, la voglia di arrivare e la sua testarda preparazione. Non si mettono in tasca quei pochi secondi se non sei bravo. Il vento non te lo permette. E neppure la leggenda. Che nel caso ri Pietro Mennea rimane intatta e cristallina.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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