A molti dei cadaveri ripescati in mare mancavano le mani, mozzate dalle guardie polacche poste a sorvegliare le scialuppe.
Altri erano stati dilaniati dagli squali che, attirati sul luogo del disastro dal sangue dei feriti, fecero scempio dei naufraghi. Circa 1400 soldati italiani, il 12 settembre del 1942, morirono in mezzo all’Oceano Atlantico, un centinaio di miglia a nord dell’Isola inglese di Ascensione. Molte famiglie non ebbero neppure una bara su cui piangere i loro cari.
Fu una delle più crudeli e atroci stragi avvenute durante il secondo conflitto mondiale, un’assurda carneficina dove l’orrore della guerra si manifestò in tutta la sua disumana violenza. I combattenti italiani periti nella tragedia erano usciti vivi dalla prima battaglia di El Alamein, in primavera, ma erano stati catturati dagli inglesi e poi stipati nella stive del transatlantico Laconia, in navigazione verso il Regno Unito circumnavigando l’Africa.
Il Laconia era una nave da crociera della compagnia Cunard, varata nel 1921 dai cantieri inglesi e che per vent’anni era andata a zonzo tra i porti del mondo intero, carica di ricchi turisti amanti della bella vita. Nel 1939, quando la guerra esplose, la Marina reale inglese requisì lo yacht e lo trasformò in un incrociatore, arruolandolo di fatto tra i mezzi militari. A luglio la nave partì da un porto nei pressi di Suez con a bordo 463 uomini di equipaggio, 286 militari inglesi e 1800 prigionieri italiani delle divisioni Ariete, Pavia, Trieste, Trento e Brescia. Il programma prevedeva una rotta lungo le coste africane fino al Capo di Buona Speranza, poi la lunga risalita per il ritorno nel Regno Unito. I prigionieri italiani erano 1800 e vennero ammassati nelle stive, obbligati a viaggiare come bestie e con l’unica concessione di due ore d’aria al giorno. A Città del Capo, i programmi cambiarono e la nave prese il largo affrontando l’Oceano. La notte del 12 settembre 1942, il Laconia navigava in mezzo all’Atlantico zigzagando e a luci spente, per non essere individuata da navi nemiche e dai sottomarini tedeschi che infestavano quelle acque. Ma uno di questi, L’U-Boot 156 comandato dal capitano di vascello Werner Hartenstein, riuscì comunque ad individuare il Laconia, che non era più un’allegra nave da diporto ma un vero e proprio mezzo da guerra munito di artiglieria pesante. Il transatlantico venne centrato da due siluri ed affondò due ore dopo. Durante le operazioni di evacuazione della nave, si pensò esclusivamente al salvataggio dei militari inglesi e delle loro famiglie. Nonostante ci fossero scialuppe a sufficienza per tutti i passeggeri, ai prigionieri italiani non venne permesso di uscire dalle stive. Quando poi la massa umana riuscì a sfondare una grata, spinta dalla disperazione per la certezza della morte imminente, buona parte dei prigionieri vennero abbattuti dagli spari delle ottanta guardie polacche. A quelli che riuscirono a raggiungere le lance, le mani vennero mozzate per impedire loro di mettersi in salvo. Particolare, questo, rivelato da uno di quei dannati. Antonino Trizzino, nel suo libro “Sopra di noi l’oceano”.
I superstiti finirono in mare, nuotando e aggrappandosi ai rottami del Laconia. Quando il capitano Hartenstein al comando del sommergibile tedesco capì che tra i naufraghi c’erano centinaia di italiani – al tempo ancora alleati della Germania – diede subito avvio ad una coraggiosa operazione di salvataggio, con l’assenso dell’ammiraglio Donitz: due altri sommergibili del Reich e il sottomarino italiano Cappellini vennero fatti convergere sul luogo del disastro, inoltre la richiesta di aiuto venne inviata anche alle unità nemiche che, pur avendola ricevuta, non la presero in considerazione. Eppure Hartenstein si era esposto ad un forte rischio, rendendo nota la sua posizione ed esponendosi ad attacchi a tradimento.
I sommergibili tedeschi misero in salvo circa 400 italiani, parte dei quali ospitati a bordo ed altri trainati sulle zattere di salvataggio. Tutt’attorno, brandelli di corpi umani galleggiavano nelle acque dell’Oceano, azzannati da decine di pescecani impazziti. Non era finita. Quattro giorni dopo, sui sommergibili in navigazione a pelo d’acqua piombò il bombardiere americano Liberator: nonostante la bandiera della croce rossa indicasse che era in corso una operazione umanitaria, l’aereo sganciò quattro bombe che però fallirono i bersagli. Alcune zattere con altri prigionieri italiani, rimasti senza soccorso, finirono alla deriva e approdarono, molte settimane dopo, sulle coste africane. Solo sei di questi naufraghi sopravvissero.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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