La situazione è complicata. Così sembra. Così ci vogliono far capire. Si vive nell’emergenza. Prepariamo la scorta ai convogli e dobbiamo stare attenti al tragitto, dobbiamo portare le medicine nelle tribù, nei villaggi, negli ospedali. Portiamo anche gli zaini con dentro i quaderni e le penne e le matite e tutto quello che serve ai ragazzi per sembrare ragazzi normali. Dobbiamo trattare. Tutti i giorni. Ogni attimo. Con lo sceicco di turno. E’ lui che comanda. E’ lui che decide di cosa la sua gente abbia bisogno. Ha la macchina grossa, solitamente vecchie Cadillac o Mercedes degli anni settanta, ridipinte a mano. Corre dentro la polvere lo sceicco e saluta con una mano mentre con l’altra gioca al volante. Ti guarda lo sceicco. Ha questo suo modo di guardare che ricorda una cinepresa. Inquadra. Soprattutto ti inquadra, di quelle inquadrature forti che trovi solo nei film di Sergio Leone. Da vicino. Molto vicino. Ascolta, parla con qualcuno che si è portato dalla tribù e sentenzia. A quel punto parte la trattativa. Dura ore, sinché non coloriamo i nostri occhi di stanchezza lo sceicco non si alza. Attende sornione, sapendo che il topo, prima o poi dovrà passare dalle sue parti. Si beve il the e si attende. Ha un sorriso catarifrangente lo sceicco. Un sorriso mediatico, sembra sempre in attesa di una telecamera che lo inquadri. Ha capito l’importanza della trattativa. Sa che è con lui che dobbiamo trattare. Sa che è di lui che ci dobbiamo fidare, di una fiducia falsa come quando ci troviamo davanti ad un ragioniere della nostra banca che ha appena investito i nostri soldi nel mercato orientale: “Non si preoccupi, si fidi”. Noi abbiamo lo stesso sguardo. Lo stesso identico sguardo che regaliamo al funzionario di banca. Atroce, gonfio di rughe intorno agli occhi, pensiero recondito pessimista, rassegnato. Lo sceicco infine ci guarda e, usando gli occhi con la lentezza con cui Dario Argento muove il carrello verso i particolari di un cadavere ci dice: “Si può fare”. Che non significa necessariamente che si farà. C’è sempre una costante fatalista dentro questa terra che è difficile riscontrare in altre parti. Dalle nostre parti almeno. Si può fare. Significa che possiamo cominciare a costruire la fogna o la scuola o l’ospedale. Ma dovremmo rivederci. In corso d’opera. Potrebbe cambiare tutto anche da subito. Si può fare. E’ l’unica declinazione del possibile da queste parti. L’unica .
LA STRAGE
Come un latrato. Lontano. Come quando zio Bachisio andava a caccia delle lepri. Un latrato. erano i suoi cani. Lui non li sentiva. Li annusava nell’area. Sono Leka, Mingi e Perras. Loro sono. Non li sento. Ma ci sono. Lontani. Molto lontani arrivavano quei piccoli mugolii. Erano loro. Davvero. Io sopra una pietra dall’alto di lu lamaddioni li vedevo. Anch’io non sentivo il rumore. Erano loro. Piccoli ticchettii, tamburellavano sulla terra dura, mai arata, dove solo le lepri potevano passare. E Leka, Mingi e Perras. Aspettava zio Bachisio. Aspettava un rumore, che non arrivava. Ma lo sentiva. Lontano, un sibilo nel silenzio, un canto dolce, quello di Leka soprattutto. Passava la lepre e passava dove doveva passare. Nel posto scelto da zio Bachisio e da Leka. Zio Bachisio non sbagliava col fucile malanno. Un colpo, un colpo secco senza produrre neppure rumore e la lepre che prima zampettava felice, ansimante ma sicura di riuscire a sfuggire a quel cazzo di cane, si fermava, come a rallentatore, le zampe di dietro si bloccavano, e il muso si rimpiccioliva, aveva pochi spazi prima di cadere definitivamente nelle macchie di chessa. La lepre. Senza rumore tutto accadeva. Leika che sopraggiungeva e decideva di non lasciare a nessuno il trofeo. La leccava, la povera lepre, la guardava e quasi sorrideva. Zio Bachisio aspettava. Senza nessun frastuono. La lepre non aveva più respiri. Tutto era successo in un attimo eppure si poteva raccontare. Era una lepre. Una piccola lepre senza neppure un nome. Qui il discorso era diverso, dannatamente diverso, c’era lo stesso silenzio ma non c ‘erano i latrati dei cani che ci perseguitavano, non c’era nessuna lepre ansimante. Niente. Non c’era assolutamente niente. Non c’era un cazzo di merda di niente. Non c’era neppure la remota possibilità di poter urlare, di poter commercializzare la rabbia, il disincanto, la preghiera, la voglia di fuggire, di pisciare su tutti quei cazzo di discorsi che aveva imbastito il colonnello o in quelli che avrebbe disegnato il generale. Non c’erano lepri e non si capiva che cosa ci potesse essere dentro questo fumo denso che ci rincorreva, che sguainava, che ansimava, che non si addolciva che urlava parole che sentivo mie e non erano di altre lingue ma italiane, proprio mie, allora dico, allora cazzo è successo qualcosa. Andromeda da uno rispondete, Andromeda da uno, dove siete sono dentro questo colore che non è mio, dentro questa storia che non è mia, che nessuno ci ha mai raccontato. Che cosa dobbiamo sapere che ancora non sappiamo, che cosa dobbiamo aspettare che ancora non conosciamo., Dove è il mio maresciallo, il mio colonnello il mio generale dove cazzo sono questi signori che dovevano dipingere occhi di bambini che ci avevano inviato dentro questa terra per costruire montagne di pace e sorrisi e nuovi orizzonti che non c’è proprio niente da vedere solo ponti e armi e nessuna conquista. Dove siete non vi sento io ho dentro mille rumori che non sono i nostri non possono essere i nostri, non riescono a localizzarci, a districarsi dentro questa terra che non è nostra che siamo venuti a costruire la democrazia che aveva ragione Margherita che cazzo porca puttana aiuto io non riesco ad urlare e saltano gambe e occhi e gambe e si colorano di giallo ocra e spruzzano di rosso e non sono scintille cazzo signor maresciallo io non riesco a capire perché tutto intorno salta e gioca e distrugge e urla che non sono urla che sembra di essere in apnea e non vedo più zio Bachisio e la lepre e i suoi cani. Non vedo più niente e non riesco più a sedermi a stare in piedi e non riesco più a capire cosa cazzo devo fare che deve essere importante quello che dovremmo realizzare in questo momento e dovremmo capirlo da soli perché un soldato queste cose le capisce al volo ma ci ha ragione Margherita che non sono un soldato e che non valgo niente. Cristo possibile che non si possa urlare dentro questo deserto di coscienze? Il 12 novembre 2003 avviene il primo grave attentato di Nasiriyya. Alle ore 10:40 ora locale, le 08:40 in Italia, un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti la base MSU (Multinational Specialized Unit) italiana dei Carabinieri, provocando l’esplosione del deposito munizioni della base e la morte di diverse persone tra Carabinieri, militari e civili. Il tentativo del Carabiniere Andrea Filippa, di guardia all’ingresso della base “Maestrale”, di fermare con il fucile AR 70/90 in dotazione i due attentatori suicidi riesce, tant’è che il camion non esplode all’interno della caserma ma sul cancello di entrata, altrimenti la strage sarebbe stata di ben più ampie dimensioni. I primi soccorsi furono prestati dai Carabinieri stessi, dalla nuova polizia irachena e dai civili del luogo. Nell’esplosione rimase coinvolta anche la troupe del regista Stefano Rolla che si trovava sul luogo per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione a Nasiriyya da parte dei soldati italiani, nonché i militari dell’esercito italiano di scorta alla troupe che si erano fermati lì per una sosta logistica.
L’attentato provoca 28 morti, 19 italiani e 9 iracheni. Gli italiani sono: • i carabinieri o Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante, o Giovanni Cavallaro, sottotenente o Giuseppe Coletta, brigadiere o Andrea Filippa, appuntato o Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente o Daniele Ghione, maresciallo capo o Horacio Majorana, appuntato o Ivan Ghitti, brigadiere o Domenico Intravaia, vice brigadiere o Filippo Merlino, sottotenente o Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, o Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante
• i militari dell’esercito o Massimo Ficuciello, capitano o Silvio Olla, maresciallo capo o Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore o Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto o Pietro Petrucci, caporal maggiore
• i civili o Marco Beci, cooperatore internazionale o Stefano Rolla, regista
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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