Io ho cominciato a studiare un po’ di Inglese solo a tarda età. E quando dopo un annetto di gatti sotto il tavolo e di portacenere sopra il tavolo, ho cominciato a capire due parole in croce, ho rifatto girare sul piatto Imagine. Non la sentivo più da tanti anni e volevo riprovare vecchie emozioni non cullato da una miscela di suoni dolcemente ipnotici e parole sconosciute ma apprezzando in ogni verso il mondo di Lennon. E che delusione. Ero già, non dico vecchio, ma sull’anziano spinto e solo allora scoprivo che quel mondo che mi aveva fatto sognare da ragazzo, proprio non mi piaceva. E che se da giovane avessi capito bene il testo, quel mondo non mi sarebbe piaciuto neppure allora. Ecco, perché di un mondo in cui non devi confrontarti con niente e nessuno e nel quale si vive soltanto per l’oggi, dove il paradiso e l’inferno non esistono neppure nel senso che per me hanno, e cioè come metafora della capacità umana di scegliere, ecco di quel mondo non me ne fregava niente. E non dico che io abbia ragione. Dico soltanto che per come sono fatto io, se di Imagine avessi capito qualcosa di più forse avrei risparmiato anche i soldi del disco. E cosa c’entra tutto questo con la puntata odierna dell’agenda dedicata a Jack Kerouac, nato il 12 marzo del 1922? Per spiegarvelo devo fare un po’ di storia generazionale. Io nel fatale 1968 avevo diciassette anni ed ero nel mondo della politica da un paio d’anni. Una prima breve esperienza nella Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci, e poi una spanciata di “sinistra extraparlamentare”, come si diceva allora. Di Kerouac ne sentivo parlare ma non lo conoscevo. Capivo che era più amato nell’ala movimentista che in quella marxista-leninista rigidamente organizzata in simulacri di partiti che volevano imitare il Pcd’I delle origini, quello di Gramsci e della scissione di Livorno. Io mi agitavo in quest’ultimo settore, ma anche l’altro, quello per intenderci di Mario Capanna e compagnia, mi affascinava molto. E così nel 1969, quando morì Kerouac e qualcuno dei miei compagni di cui avevo molta stima parve dolersene, affrontai “Sulla strada”. Era un Oscar Mondadori di qualche anno prima con una bellissima introduzione di Fernanda Pivano. Forse ce l’ho ancora. Ricordo anche di averlo comprato scontato in un remainders, nonostante il libro fosse ancora in commercio, e di avere approfittato felice dell’occasione perché di soldi ne avevo pochini. Voi adesso penserete che ne rimasi deluso come da Imagine. Invece no, perché ogni delusione deve essere preceduta da un’illusione e io su Kerouac non mi ero mai illuso, ne ero soltanto incuriosito. Divorai il libro, mi piacque molto. Faticai a credere che fosse un libro degli anni Cinquanta tanto mi parve attuale. Uno stile icastico, duro, martellante, nuovo per noi abituati alle forme smussate dei nostri narratori. E quei giovani fuori dalle convenzioni dell’America borghese sembravano comunicarmi i loro brividi di alcol e benzedrina. Lessi e rilessi. E poi di Kerouac lessi anche altro. E vi giuro che nella mia vita non contò niente. Una doverosa e piacevole esperienza culturale, come mille altre. Niente di più. Perché, come in Imagine, non c’è traccia di socialità nel Kerouac che ho letto io. Ogni esperienza, anche la più condivisa, collettiva e rappresentativa di generazioni e di culture, è ferocemente individuale. La Pivano ha più volte detto che per un europeo preso da roba tipo dadaismo, esistenzialismo o espressionismo era difficile capire il cuore profondo di questo fenomeno tutto americano chiamato Beat Generation. Altri hanno detto che Kerouac era un inno alla valorizzazione dell’individuo, ma che non era un individualista. Nella mia modesta capacità critica, capisco la differenza ma non riesco ad accettarla. Io posso soltanto dire che nella mia crescita che era una continua scoperta di valori sociali condivisi da individui liberi, quell’affascinante scrittore americano era un estraneo. E non perché un libro non possa influire anche notevolmente sul piano della formazione esistenziale. Ce ne sono stati alcuni che mi hanno indotto a svolte importanti della mia vita quasi quanto possono averlo fatto cose più vive, tipo una ragazza di cui ero innamorato o un professore di Filosofia Estetica della facoltà di Lettere di Cagliari di cui ugualmente mi innamorai (non fate i cretini, ci siamo capiti) e che riuscì a convincermi che Kant in realtà non è morto, come Elvis Presley. Quali libri? A esempio negli stessi anni di Kerouac lessi quasi sino a consumarne le pagine “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov. E vi assicuro che contribuì molto a fare evolvere i miei criteri di valutazione della storia e della gente. Ogni volta che sto per esprimere un’opinione secca su un individuo, ancora oggi penso al Ponzio Pilato di Bulgakov e rifletto. Kerouac no. Grande scrittore. Ma forse appartiene a un mondo che non è mai stato mio, fatto di un confuso blend di Beat Generation, New Age, psicosette e roba così. Confuso ai miei occhi, naturalmente, perché tutte queste cose in realtà non c’entrano una con l’altra. Ma cosa volete, la mia road è diversa da quella di Kerouac. E’ solo un sentierino, magari, ma porta in altri posti.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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