4.2.7
La gente presente in aula si alzò in piedi e, quando il giudice emise la sentenza, esplose in un fragoroso e liberatorio applauso.
– La Corte D’Assise di Roma ritiene Braibanti Aldo colpevole del reato di cui 603 del Codice Penale e lo condanna a nove anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. –
Quei 9 anni verranno ridotti poi, in appello, prima a sette e poi a quattro, due dei quali gli verranno condonati in quanto ex-partigiano; ma è solo un dettaglio perché quel processo resta uno dei più famosi scandali giudiziari della storia del ‘900.
“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”. Era questa l’esatta dicitura dell’articolo 603 del Codice Penale, introdotto per la prima volta da un legislatore fascista nel codice Rocco. E nel 1961 la Corte di Cassazione si era espressa ulteriormente per specificare che esso si configurava come: “l’instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo”. Difficile circoscrivere e configurare la natura del rapporto psichico, tanto che quell’articolo fu applicato una sola volta nella storia della Repubblica e abrogato nel 1981 perché dichiarato incostituzionale Fu usato la prima e ultima volta per Aldo Braibanti.
Aldo Braibanti, di origini piacentine, ha alle spalle una famiglia laica e una gioventù densa di impegni culturali e politica attiva nella Firenze pullulante di ideali del secondo dopoguerra. Milita nella Gioventù Comunista Italiana e ne diventa responsabile ma, dopo due arresti e brutali torture subite dai nazifascisti, si dimette da ogni incarico politico e si dedica agli studi. Un uomo malato di sapere, di vita, di curiosità. Una mente energica, operosa e produttiva.
Si trasferisce a Roma, è il 1962. E ci va con Giovanni Sanfratello, il suo compagno. Aldo Braibanti ha infatti una relazione omosessuale con un ragazzo di 24 anni che, oppresso da una famiglia tradizionalista di destra e pervasa dal cattolicesimo bigotto, trova nel compagno quegli stimoli, quella vivacità intellettuale e libertà culturale che a casa gli mancano.
Il padre di Giovanni, che capisce quanto sia affiatata quella coppia, nell’impossibilità di dividerla, agisce d’imperio: rapisce il figlio e ne dispone il ricovero in una clinica modenese specializzata in malattie nervose. Ma non è sufficiente: l’omosessualità è una malattia seria e come tale va curata, Giovanni viene quindi trasferito in un manicomio dove uscirà dopo un anno e mezzo con la testa scrollata da quaranta scariche di elettroshock e col divieto di entrare in contatto con chiunque non appartenga alla sua famiglia e la proibizione di leggere libri che abbiano meno di cento anni.
– Il giovane Sanfratello è un malato e la sua malattia ha un nome: Aldo Braibanti. Quando appare lui tutto è buio – dichiarerà il Pubblico Ministero durante il processo.
Il processo a Braibanti inizia il 12 giugno del 1968 e, in uno scenario europeo di contestazione e fame di libertà e diritti, in quell’aula di tribunale al cospetto della Corte marcia una pletora di luminari della psichiatria di regime, esponenti del clero e testimoni corrotti. L’imputato finisce col diventare la vittima sacrificale di un divario di idee, norme culturali e di opportunità nel passaggio tra due epoche. La risposta istintiva e violenta di un’Italia benpensante contro ogni tentativo di libertà sessuale e in particolare contro lo spettro dell’omosessualità si concretizza in una condanna.
La condanna più dura per Braibanti, però, non è stato il carcere, bensì la lontananza da tutti quelli che ne hanno preso le distanze, fino alla sua morte. La ghettizzazione è infatti la pena che quella fetta di piccola borghesia mette sopra alle diversità per sentirsi al sicuro, perché la possibilità di istituzionalizzare un’indecenza costituisce un primo passo verso la familiarizzazione con essa.
E così, in un mondo che pian piano si spogliava da abiti troppo stretti, in quell’aula si tornava indietro nel tempo per celebrare un processo di stampo medioevale con una sentenza vergognosa, offensiva e oltraggiosa dei diritti civili.
Ma ancora oggi, ogni volta che nel nostro Paese le stesse combriccole politiche e tignosamente bigotte, ostacolano una seria legge contro l’omofobia o le unioni civili per gli omosessuali ci ripresentiamo tutti in quell’aula di tribunale e puntiamo l’indice accusatore contro Aldo Braibanti. Per emettere la stessa ignobile e disgustosa condanna di colpevolezza.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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