di Maria Dore
“Qui è troppo buio per scrivere, ma ci proverò a tentoni. A quanto pare non ci sono possibilità di salvarsi. Forse solo dal 10 al 20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà queste parole. Saluto tutti, non dovete disperarvi”
Sono le 15:45 del 12 agosto 2000 quando Dimitry Kolesnikov realizza quello che succederà a lui e ai suoi ventidue compagni stipati nello scompartimento nove del K-141 Kursk, il sottomarino nucleare più potente del mondo, il fiore all’occhiello della flotta marina russa. Accadrà quello che è già accaduto qualche ora prima agli altri cento membri dell’equipaggio: il K-141 Kursk diventerà una tomba. Alle 11:28 la prima di due esplosioni avevafatto affondare quel gigante che con un’esercitazione militare doveva mostrare al mondo quanto grande e temibile potesse essere la Russia del neo presidente Vladimir Putin. Kolesnikov capisce. Capisce che, contrariamente a quanto raccontato in molte fiabe e nella Bibbia, la pancia di quel mostro marino non è un ventre che protegge. Il Kursk è un mostro alto come un palazzo di otto piani e contiene missili capaci di generare esplosioni quaranta volte più potenti della bomba di Hiroshima.
Kolesnikov forse sa. Forse sa quello che nessuno dirà mai chiaramente, né quando la notizia della morte dell’intero equipaggio diverrà ufficiale-due giorni dopo le esplosioni-né mesi dopo, né mai.
Perché, ad esempio, il comandante del Kursk non tenterà nessuna azione di salvataggio dopo la prima esplosione? Perché le autorità russe, nei momenti immediatamente successivi al disastro sembrano addirittura temporeggiare?
La verità, molto spesso, o si palesa subito o non è.
Nel caso del Kursk la verità è rimasta a centinaia di metri di profondità, nelle fredde acque del mare di Barents.
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