Lo chiamavano ‘U cagnuleddu. Non era affatto un vezzeggiativo, come il suffisso “-eddu” potrebbe far pensare, quel nomignolo era più che altro un destino. Gli hanno riservato la sorte di alcuni cuccioli di cane in campagna: legato con una catena al collo fino a trasformarlo in una larva. ‘U cagnuleddu era Giuseppe Di Matteo, cresciuto mentre consumava quei 779 giorni di angoscia, legato e tenuto nascosto al buio nelle aziende agricole di mezza Sicilia, fino alla sua atroce morte l’11 gennaio del ’96.
Giuseppe ha 12 anni quando dei signori in divisa lo avvicinano annunciandogli che lo avrebbero portato da papà. Quel bambino esulta di gioia, perché papà non lo vede diverso tempo. Il padre è Santino di Matteo, ex uomo di Cosa Nostra, che si è allontanato da Totò Riina ed è diventato un collaboratore di giustizia sotto protezione. Ma quei signori non sono poliziotti, sono uomini al soldo di Giovanni Brusca. E anche se non è la fiaba del lupo e i sette capretti, i carnefici hanno messo la farina nelle zampe e avvicinato la preda ignara. Giuseppe li segue fiducioso, sale a bordo del loro Fiorino e non sa ancora che in quel preciso instante è diventato un ostaggio.
La storia si sviluppa come un racconto di Verga. E’ un romanzo corale dove i protagonisti rappresentano il punto di vista della comunità che accetta in silenzio quelle tacite regole e dove nella famiglia è già deciso il destino dei congiunti.
C’è Franca, la moglie di Santino che, come La Longa dei Malavoglia, resta fedele al suo ruolo di moglie e di madre, anche se è la moglie di un assassino e madre di una vittima. C’è il Piddu il nonno mafioso, che è Padron ‘Ntoni, costretto ad assistere impotente alla lenta demolizione di ciò che ha costruito nel corso della vita, alla disgregazione della sua stessa famiglia ma graniticamente aggrappato al codice di Cosa Nostra.
L’11 gennaio Giovanni Brusca, che nel suo ambiente è soprannominato ‘u verru (il porco), ma anche scannacristiani, scopre alla tv di essere stato condannato all’ergastolo per il delitto di Ignazio Salvo, salta su tutte le furie ed emette la sua sentenza. Si rivolge al fratello Enzo, a Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo e ordina:
– Allibertativi du cagnuleddu! –
Per lo scannacristiani un assassinio, per quanto spietato, non basta. Del figlio di un pentito bisogna eliminare ogni traccia, va cancellato dalla faccia della terra e intima che quel corpicino già martoriato dalla prigionia venga sciolto nell’acido nitrico
“Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, l’abbiamo versato nell’acido” ha raccontato Vincenzo Chiodo all’udienza del 28 luglio 1998.
Nel fusto di acido l’unica cosa che restò integra fu la corda che avvolgeva il corpo di ‘u cagnuleddu, il resto si è dissolto. Ma non è sparito nel nulla. Perché ha imbrattato indelebilmente di infamia la storia dell’umanità.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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