Ventisette anni chiuso tra le anguste mura di una cella, ventisette anni sorvegliato dai nemici. Giorni, mesi, anni lunghi, molto lunghi, lunghissimi anni. “Dal profondo della notte che mi avvolge, Buia come un abisso che va da un polo all’altro…” Il tempo scorre come un fiume lento, e il mare pare non giungere mai. Dalla finestrella, unico angolo di diffusione della luce, giungono i ricordi, a volte isolati, a volte a frotte. Un ricordo, però, è più nitido degli altri. Scacciarlo dalla mente non è possibile. Shaperville, 21 marzo del 1960. I poliziotti bianchi cominciano a sparare sulla folla africana riunita per protestare pacificamente contro un’ulteriore restrizione del regime di segregazione sudafricano, l’Apartheid. La folla fugge ai primi colpi, ma i poliziotti del regime del partito nazionalista continuano a sparare senza pietà, uccidendo 69 persone, tra cui molti rappresentanti del partito panafricano. Una strage. “Nella feroce morsa delle circostanze, Non mi sono tirato indietro né ho gridato. Sotto i colpi d’ascia della sorte Il mio capo è sanguinante, ma indomito.” Nel 1963, le porte del carcere sudafricano si chiusero dietro le spalle di Nelson Mandela. Le accuse erano piuttosto generiche, ma sufficienti, data la legge marziale ormai imposta dal regime, a condannare all’ergastolo uno dei leader di quel partito che lottava contro la segregazione. Nelson Mandela, varcando quella soglia, sentì come non mai il peso di una storia, ormai secolare, di ingiustizie, razzismo, inganni, assassini, massacri deliberati contro la sua gente innocente. Il peso delle ingiustizie sofferte dal suo popolo lo soffocava più che le pareti grige di quel carcere, più della polvere delle pietre spaccate durante i lavori forzati, più delle angherie e dello scherno dei suoi aguzzini. “Oltre questo luogo di collera e di lacrime, Incombe solo l’Orrore delle ombre…” Nelson, in quei lunghi giorni, in quei lunghi anni, capì che aveva una sola scelta. Sentirsi invincibile. Come nella poesia Invictus del poeta inglese William Ernest Henley, il rivoluzionario comprese che l’unica strategia possibile, per salvare e redimere il suo popolo dalla schiavitù, era la sua invincibilità. “Ringrazio qualunque dio esista Per la mia inconquistabile anima.” Ventisette anni di pensieri con una unica missione: salvare il suo popolo. In ventisette anni Nelson concepì tutte le possibili strategie atte a quella idea di salvezza. Non una, però, reggeva ad una onesta e seria controprova. Tutte le strategie di lotta, che fossero diplomatiche o violente, in quella situazione bloccata, dove una minoranza bianca teneva in pugno una maggioranza nera, parevano inutili. La sua vita era diventata una prigione, una doppia prigione. Quelle pareti erano diventate la rappresentazione della propria impotenza. Non c’è soluzione, il destino è questo. Soffrire, piangere, morire, adeguarsi alla colossale ingiustizia di un mondo maledetto. Eppure… “Eppure la minaccia degli anni Mi trova, e mi troverà, senza paura.” Nelson aveva letto molto, in quei lunghi anni. Aveva letto tutto sulla storia del suo paese, e sui suoi nemici, gli afrikaner bianchi. Sapeva tutto dell’Europa, del mondo dal quale gli afrikaner in origine provenivano. Mentre rigirava tra le mani quella poesia, un pensiero, proveniente da una imprevista apertura del cuore, giunse alla mente. In quel luogo dal tempo immobile, quel pensiero prese forma. Un pensiero ingombrante, una soluzione assurda e inaccettabile per un organismo provato dall’ingiustizia e dalla prigionia. Eppure, dopo lunghissimi ragionamenti, Nelson Mandela comprese che quella era l’unica soluzione. Amare il nemico. Nelson Mandela comprese, così, che l’unica soluzione possibile era amare il proprio nemico. L’unica strategia possibile era armarsi di spugna e cancellare il passato, cancellare i torti, le ingiustizie, quasi sempre a senso unico, contro il suo popolo e ricominciare tutto d’accapo. Azzerare il tempo e ripartire con un’altra storia e un nazione nuova, rifondata su nuovi principi: giustizia, equità sociale, parità di diritti, educazione, fiducia, fratellanza. Amare il proprio nemico era l’unica soluzione per fondare una nazione che, fino a quel momento, nazione, veramente, non lo era stata mai. Nelson Mandela uscì dal carcere l’11 febbraio del 1990, dopo ventisette anni di prigionia. Nel 1993 vinse il premio Nobel per la pace insieme al Presidente Sudafricano De Klerk, che poi sconfisse l’anno dopo nelle elezioni presidenziali, le prime democratiche del Sudafrica. Mandela nominò, in segno di riconciliazione, De Klerk vicepresidente. Riconciliazione fu la parola d’ordine di quei difficili anni presidenziali, alla guida di un paese diviso e attraversato da enormi problemi sociali ed in particolare sanitari, a causa della diffusione dell’Aids. Nelson Mandela oggi è unanimemente considerato come il padre della nuova nazione sudafricana, avendo avviato un processo di riappacificazione tra le varie etnie, al punto che le due nazionali, quella di rugby, prima riservata ai bianchi, e quella di calcio, a prevalenza nera, sono finalmente diventate rappresentative dell’intera nazione. Il Sudafrica così è potuto rientrare nel consesso delle nazioni civili e nei vari organismi internazionali, come l’Onu e il Cio. La stretta di mano con il capitano della squadra sudafricana di rugby campione del mondo, alla premiazione dei campionati mondiali svolti in casa, sono diventate una delle immagini simbolo della riappacificazione tra i popoli. Ogni anno, dal 2005, si celebra nel mondo, il 21 marzo, giorno del massacro di Shaperville, la giornata mondiale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Nello stesso giorno si celebra in Sudafrica la giornata nazionale dei diritti umani. “Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.”
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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