Secondo le cronache del mondo degli scacchi, Garri Kasparov è stato il più grande giocatore di tutti i tempi. La sua carriera, maturata sotto la vasta ombra del comunismo sovietico, lo vide emergere contro i più grandi campioni del suo tempo, dalla fine degli anni Settanta fino ai primi anni del nuovo secolo.
I profani come me però lo ricordano per due cose soprattutto: l’eterna sfida con l’altro gigante, Anatolij Karpov, e la doppia sfida contro Deep Blue nel 1996-1997.
Se la prima sfida, durata anni, si risolse a favore di Karpov, nel 1997 il mondo assistette a qualcosa di inaudito: Deep Blue, un computer della IBM progettato apposta per giocare a scacchi, sconfisse il campione russo prevalendo in una serie di cinque incontri.
Di quella vicenda va ricordato che la IBM non tenne un comportamento del tutto trasparente, lasciando molti col sospetto che il computer venisse riprogrammato (ovviamente da mano umana) durante la sfida, mettendo a disposizione di quella immensa potenza di calcolo, anche informazioni sulla strategia e le scelte adottate dal campione umano. Praticamente Kasparov sostenne che Deep Blue veniva aiutato ad “apprendere”, eliminando così la differenza radicale che avrebbe consentito di far scontrare da una parte la creatività e dall’altro la capacità di calcolo. Il fatto che la IBM si sia sempre rifiutata di fornire i tabulati delle attività della macchina durante gli incontri, rafforzò in tutti questo sospetto.
Ma il nodo sta da un’altra parte.
C’è una cosa che Deep Blue non avrebbe potuto fare: raccontare una storia sugli scacchi. Alla fine la bellezza del gioco, quello che ne fa un patrimonio di tutti e non solo dei campioni, è la sua capacità di farsi metafora di qualche altra cosa, e i computer non sono bravi con le metafore, perché sono in grado di dedurre, ma non sanno riconoscere la bellezza. Se ci pensate, è un dettaglio tanto banale quanto decisivo nel distinguere tra due tipi di intelligenza, quella umana e quella artificiale.
Lo steso Kasparov ebbe a dire un giorno che “Gli scacchi sono il gioco più violento che esista”. Questo significa padroneggiare il gioco: essere capaci non solo di giocarlo, ma anche di raccontarlo e di contestualizzarlo, come si fa ogni volta che si racconta una storia.
Chiudo consigliando a chi non l’avesse letto, di andarsi a recuperare un bellissimo romanzo uscito per Adelphi nei primi anni Novanta: “La Variante di Luneburg”, di Paolo Maurensig. Racconta una storia fantastica e terribile, una storia di scacchi e di violenza. Non una violenza qualunque, ma la più grande violenza di cui il mondo di oggi abbia memoria.
Protagonisti un allievo e un misterioso maestro di scacchi Tabori. A un certo punto del romanzo, un terzo personaggio dice al ragazzo, parlando di Tabori: “Gira alla larga da quello lì. Quello è uno che ha giocato all’Inferno”
Ecco, Deep Blue all’inferno non potrebbe giocare, non potrebbe né vincere né perdere, perché non lo potrebbe riconoscere e dunque neanche se ne potrebbe mai salvare.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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